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martedì 5 marzo 2019

L'Osservatore Romano: Nel mondo c 'è posto per tutti

Sulla missione di vincere l'indifferenza che uccide

«Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo ancora imparato la semplice arte di vivere insieme come fratelli»: così scriveva il pastore battista Martin Luther King. C’è chi ha definito questa stagione come l’età della morte del prossimo (Luigi Zoja). La fraternità attraversa la sua crisi e con ogni probabilità paga lo scotto della crisi di paternità e di maternità del nostro tempo. La vicinanza, che un tempo era considerata una ricchezza sociale, ora è avvertita come minaccia. È sempre troppa: meglio tenersi a distanza. Da qui la diffidenza e la paura. 

Sulla fraternità la Parola di Dio non fa sconti. Il primo omicidio non avviene tra estranei, ma nell’ambiente familiare, con Caino che uccide Abele (Genesi 4). La domanda di Dio mette l’omicida con le spalle al muro: «Dov’è tuo fratello?». La fraternità non è una scelta. È un legame che l’uomo subisce, come la nascita, e come i genitori da cui si nasce. Ci si trova implicati nella fraternità, che rimanda ad una diversità. Caino e Abele sono fratelli che scelgono lavori differenti: uno è contadino e l’altro è pastore. Il fatto che Dio sembri preferire l’ultimo al primo, sovvertendo l’ordine di nascita non ha una spiegazione evidente. 
A ben guardare il testo biblico mostra una duplice predilezione da parte di Dio: verso Abele, il cui sacrificio risulta gradito, e verso Caino, l’unico a cui Dio rivolge l’attenzione della sua parola. L’invidia che ne deriva è proprio il non voler vedere la realtà: Caino guarda solo alla predilezione del fratello ma non sa scorgere la sua. La paura che domina il primogenito di Adamo ed Eva proviene dal non credere che, nella vita, ci sia posto per due. Caino è succube del tarlo del sospetto: sembra esserci un unico posto, e allora la vita è competizione per difendere il proprio. 
La fraternità da esperienza di condivisione assume i criteri dei reality televisivi: mors tua, vita mea. 
La vicenda biblica più affascinante è senza dubbio quella di Giuseppe venduto dai fratelli (Genesi 37-50). Egli è il sognatore, che vanta un posto di privilegio nei confronti degli altri. In un sogno vede i fratelli prostrati ai suoi piedi, in segno di manifesta inferiorità. Alla prima occasione la vendetta è consumata sul piatto: viene venduto e allontanato, in modo da non poter più dare fastidio. Al padre si fa credere la morte per disgrazia, affinché non possa più attenderlo. La storia porta Giuseppe in Egitto, dove riesce a scalare le posizioni sociali grazie alla sua saggezza. Sarà governatore del faraone. 
Nei confronti dei fratelli egli evita la vendetta. Si affida alle mani di Dio, che vede presente nelle pieghe della sua vicenda: «Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio» (Genesi 45, 7-8). Egli però non cede neppure alla tentazione di perdonare subito: ciò avrebbe confermato senza appelli l’idea di essere il migliore. 
La sapienza di Giuseppe sta nel ricostruire una nuova vicenda simile alla sua per dare una seconda chance ai suoi fratelli. Li carica di grano, ma tiene in prigione Simeone, che avrebbe scarcerato al momento del loro ritorno in Egitto con l’ultimo dei fratelli, Beniamino. In questo modo Giuseppe costringe i fratelli a prendersi cura di uno di loro, preso in ostaggio. I fratelli devono convincere il padre a lasciar partire il figlio prediletto, segno di una preoccupazione concreta verso Simeone. Al ritorno in Egitto, ecco l’ennesimo colpo di scena narrativo, con la coppa fatta nascondere nel sacco di Beniamino, che finisce in carcere. 
I dieci fratelli si trovano di nuovo nella medesima situazione di trent’anni prima, quando vendettero Giuseppe. Anche stavolta possono liberarsi definitivamente del prediletto di Giacobbe. È Giuda a rimettere in gioco la fraternità: si offre e prende il posto di Beniamino. La conclusione è nota: Giuseppe si rivela nell’abbraccio ai fratelli e al padre Giacobbe. La sua predilezione non è a scapito degli altri, ma al loro servizio. 
La fraternità, dunque, non si sceglie: la si trova e, insieme, va costruita. Si è fratelli e lo si è per sempre, ma proprio questo fatto impone di non potersi pensare soli al mondo. La presenza del fratello decentra e obbliga a non vedere un mondo costruito intorno a sé. Le difficoltà di relazione tra persone non sono un’eccezione alla fraternità pacifica, ma sono la regola. Tra incontro e scontro non vi è poi una distanza così abissale. La fraternità va ricostruita ogni volta, a partire dalla diversità. Ciò permette di fare i conti con il dramma della libertà umana. Si tratta di accettare l’alterità e aver fiducia che essa non è a esclusione della propria vita, ma a garanzia di una promessa di comunione (cioè di vita piena!). La fede cristiana ha l’incredibile coraggio di ritenere possibile per tutti gli uomini «una infinita comunicazione di due soggettività illimitate, ossia una fraternità avvolta e sorretta dal mistero assoluto del Dio infinito» (Karl Rahner). 
La scelta di fronte alla quale ci si trova è tra la fiducia nell’altro o il sospetto, tra il consegnarsi come Cristo all’umanità o l’armarsi per negare un posto all’altro. Il «siete tutti fratelli» (Matteo 23, 8) di Gesù Cristo è inserito in un discorso di nuova paternità: c’è un solo Padre nel cielo. 
La fraternità è, in realtà, esperienza di Vangelo: rivela la buona notizia che la terra è di tutti e che, nell’abbraccio di Dio, c’è posto per tutti. La fraternità cresce nella misura in cui si lascia spazio all’altro e si riconosce la medesima provenienza. Lo aveva scritto Paolo VI nella Populorum progressio 66: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli». Il magistero di Papa Francesco si inserisce in questo solco. 
La fraternità è un dramma. Mette in guardia da una visione irenica del rapporto con l’altro. L’indifferenza uccide. Trasforma la vita in rivalità, schiavitù, violenza, ingiustizia e bruttezza. Degenera l’umanità in competizione tra squali, secondo la ferrea legge del più forte. 
Perciò, la fraternità è frutto di un allenamento paziente. Mai concluso. Cresce nell’incontro e nel campo aperto della relazione. Rimane vero quanto scrive Wislawa Szymborska in un canto poetico: «Alla nascita d’un bimbo il mondo non è mai pronto». C’è sempre bisogno che qualcuno gli faccia posto. Se ciò accade, è un atto di fiducia nella vita. C’è davvero posto per tutti.

di Bruno Bignami

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