di: Michele Giulio Masciarelli
Credere è odorare col profumo di un altro
L’esperienza di fede è senz’altro esperienza di bellezza, cioè di un incontro reale ma anche ineffabile, di una presenza intima a noi più di quanto noi lo siamo a noi stessi. L’incontro di fede col Dio vivente coinvolge tutto l’uomo, anche nella sua corporeità e nei suoi sensi, come pensa sant’Agostino: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace».[1] Così, credere è respirare la «fragranza» di Dio con un “olfatto spirituale” e farne il respiro personale: in altri termini, credere è far coincidere il proprio odorare con l’odorare la fragranza di Dio.
Ogni uomo ha un suo odore speciale, una sua identità olfattiva, tanto da parlare di “firma chimica”, di “passaporto olfattivo”. Anche se, da un certo punto di vista, è il senso più primitivo e più grezzo, quello che più di altri dice la nostra natura animale, l’olfatto è anche il più raffinato e sofisticato, il solo che fa penetrare nell’intimità delle persone, aspirarne gli stati d’animo, aprendoci persino le porte della nostra intimità. Ebbene, il credente è colui che rinuncia al profumo del proprio corpo, della propria anima, della propria vita per assumere il profumo di Dio e lasciarsi riconoscere da esso.
Credere è atto di estrema umiltà: è infatti espropriarsi di quanto c’è di più personale… È, del resto, un’esperienza consolidata nel tempo quella di concepire l’esperienza religiosa come profumare di Dio. In Oriente il santo è l’uomo la cui somaticità è evento di bellezza e di comunione, il cui corpo esala profumo spirituale. I “sensi spirituali” non sono solo metafore, ma connotano l’esperienza della comunione con Dio nei vari aspetti in cui si può manifestare: dolcezza, interiorità, intimità, la sobria ebrietas, che è, in buona sostanza, l’esperienza profonda dell’amore di Dio.
Il profumo della verità di Dio
L’icona del profumo s’espande senza limiti, ma con apertura universale; a dire la volontà d’amore con cui Dio raggiunge tutti gli uomini usciti dalla sua mano creatrice. Si tratta di un amore salvifico che agisce mediante il balsamo profumato della parola di Dio. Siamo chiamati a partecipare a questa profumazione del mondo con un balsamo che Dio non versa direttamente su di esso, ma su di noi e, attraverso la nostra vita profumata, Dio raggiunge il mondo intero.
Dio, dunque, per spandere il profumo della conoscenza (che insieme è verità di Dio e degli uomini) impegna la nostra responsabilità più forte: infatti non ci chiede anzitutto di parlare, di compiere azioni, di intraprendere iniziative, che in un qualche modo resterebbero al di là di noi stessi, ma di profumare con tutta la nostra persona e con l’intera nostra esistenza e col nostro stare al mondo. Si tratta, in fondo, di vivere una buona passività: lasciarci profumare dall’amore divino, impregnarci di esso che profuma non della conoscenza nostra, ma di quella di Dio: così profumati, attiriamo a Dio e alla sua conoscenza.
La nostra partecipazione all’espansione della bella verità di Dio è dovuta alla nostra unione con Cristo e al nostro operare in lui, che è la fonte della nostra profumazione e della nostra capacità di profumare il mondo. «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo…» (2Cor 2,14). Questa unione con il profumo di Cristo che ci rende profumati di lui si dà per l’unzione dello Spirito, che sant’Ireneo chiama addirittura «la nostra stessa comunione con Cristo».[2] Lo Spirito ci unge e, ungendoci (nel battesimo, nella confermazione, nel sacerdozio), ci rende profumati di Cristo. Sant’Atanasio così scrive in proposito: «L’unzione è il soffio del Figlio, di modo che colui che possiede lo Spirito possa dire: “Noi siamo il profumo di Cristo”. Il sigillo rappresenta il Cristo, cosicché colui che è segnato dal sigillo possa avere la forma di Cristo».[3] In quanto unzione, lo Spirito ci trasmette il profumo di Cristo; in quanto sigillo, la sua forma o la sua immagine.
Credere è profumare di Cristo
Sant’Agostino echeggia la dottrina dei “sensi spirituali” iniziata da Origene: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo”, perché l’anima si diletti dell’odore del Logos; egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita».[4]
Il Figlio di Dio, incarnandosi, ha fondato in modo definitivo la grande dignità spirituale del corpo. Stranamente, è pur vero che talvolta si pretende di fondare la dottrina tradizionale dei sensi spirituali sulla rottura fra sensi corporei e sensi spirituali o sulla loro contrapposizione, sebbene qualche volta si percepisca la continuità fra i due livelli di sensi.
Il sensus fidei è connesso a un vissuto, a una conoscenza esperienziale di Dio che porta a riconoscere il senso delle cose divine, cioè a operare un convincente discernimento: ad esempio, nella liturgia eucaristica, il mistero celebrato è il mistero della fede, esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente:
ascoltare la parola di Dio proclamata,
vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli,
gustare il pane e il vino eucaristici,
toccare l’altro con l’abbraccio di pace,
odorare i profumi, l’incenso.
Dopo che, nell’incarnazione, la rivelazione ha raggiunto l’uomo attraverso tutti i sensi, consegue che, nell’economia sacramentale, la celebrazione del mistero coinvolga ugualmente tutti i sensi, ma in un loro affinamento e in una loro trasfigurazione dal momento che si tratta di un’esperienza credente estremamente raffinata e profonda, qual è quella di cogliere la realtà «in Cristo».
Nell’esperienza cristiana i sensi non sono evitati; piuttosto sono orientati dalla fede, coltivati dalla preghiera, inseriti in Cristo, trasfigurati dallo Spirito: pertanto l’iniziato all’esperienza cristiana è una nuova creatura che davvero
- “vede” e “riconosce” il Figlio essenziale come suo Fratello necessario,
- “ode” e “ascolta” la sua parola,
- lo “tocca” con le sue mani,
- “si nutre” di lui, pane di vita eterna e bevanda di salvezza, lo “gusta”,
- e… respira il profumo del suo mistero personale e la santità della sua vita.
La vita dei discepoli e quella dei discepoli divenuti pastori sono un segno efficace di Cristo presente e operante nella misura in cui sono profumo di lui. Essi non possono mandare altro profumo che quello del pastore bello e buono; in concreto, si è «profumo» di Cristo nella misura in cui si ha il coraggio di seguire la sua stessa sorte senza preoccuparsi di se stessi e delle proprie cose, ma anzitutto delle cose del Regno…
[1] Confessioni X, 27,38.
[2] S. Ireneo, Adv. Haer. III, 24, 1.
[3] Lettere a Serapione, III, 3.
[4] Commento al Cantico II,167,25.