A Natale tutti gli possono parlare: qualche cosa tutti gli dicono perché quand’Egli nasce «nel mezzo della notte, si fa un gran silenzio, e alla Parola onnipotente che discende dalle sue sedi regali» le povere voci create s’accostano e parlano.
Volete che non gli parlino il bue, l’asino, le pecore del Presepio? E la paglia del suo giaciglio non gli dirà nulla? E gli Angeli non volete che gli portino il desiderio delle stelle e i sospiri della notte?
Un bambino non dà soggezione. Perfino i mendicanti parlano ai bambini che incontrano per strada: perfino la gente che non sa o non osa rivolgere la parola ad anima viva, davanti a un bambino si fa coraggio. Un bambino non tradisce, un bambino non fraintende, un bambino capisce ogni lingua. Egli non è ancora salito sulla torre di Babele.
Capisco adesso perché l’Onnipotente si fa bambino: perché l’onnipotenza si veste della più grande impotenza e chiede a tutti e ha bisogno di tutto, anche di una stalla abbandonata, del fiato di un asino, di un po’ di paglia.
Il Presepio è la casa dell’Accondiscendente: la scuola che confonde i savi e depone i potenti. Deposuit potentes de sede.[1] Che strana maniera di confonderci e di deporci.
Noi ci vestiamo di ferro e di acciaio, ci mettiamo intorno fortezze di cemento e campi di mine: ci serviamo d’ordigni che vomitano fuoco e morte. Vantiamo la nostra forza uccidendo.
Che povera forza, una forza che uccide! Mentre il Forte si veste di povera carne, una carne che ha freddo, ha fame. Già piange: già sanguina questa povera carne di un Dio fatto bambino!
Noi ci barrichiamo, scaviamo trincee, tracciamo limiti… e l’Inaccessibile, l’Inviolabile, l’Eterno, entra nel tempo, scende sulla terra, prende dimora fra gli uomini, toglie il limite tra l’infinito e il finito, tra l’umano e il divino e si mette a servizio di tutti, alla mercé di tutti…
Quale temerarietà! O non ci si conosce o la sua carità è così grande che può passar sopra a tutte le misure e a tutte le precauzioni della nostra saggezza.
Qualunque cosa T’accada, Signore, non potrai incolpare che Te stesso: se un giorno Ti metteremo in croce, non potrai dire: io non l’ho voluto.
Ci hai posto in tentazione di mancarti di riguardo. Un bambino che nasce in una stalla, anche se gli angeli lo giocondano, non può essere un personaggio di riguardo.
Infatti, tutti vengono a vederlo: tutti gli vogliono parlare e nessuno si fa annunciare.
Vorrei parlargli anch’io se non m’infastidisse la gente che ha d’intorno; vorrei parlargli solo, cuore a cuore. Aspetterò un poco: chissà che quel devoto che non la smette mai, intanto finisca. Finalmente! se ne va. Non c’è più nessuno: è la mia volta.
‒ Signore…
Dovrei parlargli di me, ma in questo Natale non posso parlargli di me, ho vergogna di parlargli di me.
Io possiedo ancora una casa, un focolare, una chiesa, una patria. Non è ancora venuto nessuno a ordinarmi di sgombrare: nessun aeroplano è venuto a sganciare bombe sulla mia casa, nessun morto tra i miei… Di guai non ne manco, ma son guai fabbricati da me, dal mio benestare che può prendersi il lusso di contare che gli manca questo e quello.
E quando uno sta bene, non rappresenta nessuno all’infuori di sé stesso.
Io non sono la voce di nessuno. E se non sono la voce di nessuno, con quale diritto voglio parlare a Uno che è tutti?
Davanti all’uomo, solo chi sta bene ha diritto di far sentire la propria voce.
Solo chi sta bene ha dei diritti davanti all’uomo: solo chi ha qualche cosa è qualcuno davanti all’uomo. Ma davanti al Presepio è qualcuno solo chi ha niente. Gli può solo parlare uno che ha niente.
Se uno fa gli affari su quelli che muoiono in trincea o in mare, non ha diritto di parlare.
Se uno non ha cuore per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa… non ha diritto di parlare.
Se uno resta indifferente davanti alla barbarie irrompente, non ha diritto di parlare.
Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare.
Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia; il mio egoismo mi schiaffeggia: la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni diritto di parola davanti al Dio-Bambino di questo Natale di guerra.
Scappo di chiesa e mi butto per la prima viottola che mena ai campi. La notte pare schiarirsi sotto le stelle divenute vicine, molto vicine, e meno indifferenti per quello che accade quaggiù. Voglio domandare al silenzio della notte, alla desolazione dei campi, alle lagrime dei poveri, dei perseguitati, degli orfani, delle vedove, al lamento dei feriti, al grido degli esuli e degli oppressi, ai morti di tutti i cimiteri vecchi e nuovi… la voce che sola ha diritto di parlare al Cristo.
Voglio che qualcuno mi impresti il diritto che ho perduto, la dignità che ho rifiutato rifiutandomi al dolore.
Sono disposto a «vendere» tutto per riavere quella comunione con l’umanità lacerata e crocifissa che sola può dare voce alla mia preghiera.
Suonano le campane della mia chiesa. Che strano suono! non sembrano neanche le mie campane. Ma io le ho sentite ancora queste campane. Natale del 1918: una foresta ai limiti del Belgio.[2]
La stessa solitudine, lo stesso silenzio… a l’improvviso, un suono di campane… dopo tanti mesi di cannone.
Finalmente la pace in un suono di campane: tutta la stanchezza che cede in un suono di campane: tutta la sospensione dei cuori in un suono di campane: tutti i lutti, tutte le speranze in un suono di campane.
Come mi sembra lontana la casa, la chiesa, la Patria! … E sono a due passi: le porto in cuore e me le sento così perdute, così fragili, così inesistenti… Non ho più nulla di mio. Di mio, in questo momento, non ho che l’urlo delle sirene d’allarme, lo scoppio delle mine, il sibilo dei siluri che squarciano la carne, il bagliore degli incendi, il pianto degli orfani, il lamento dei prigionieri, l’inguaribile nostalgia dei profughi, le croci di legno.
Adesso ho diritto di parlarti. Signore, sto male. Ma perché Tu sei tornato fra noi, perché hai voluto tornare tra noi ancora una volta, è tutt’altra cosa.
Non ti chiedo nulla: mi basta che tu sia fra noi. Noi possiamo divenire anche più cattivi, ma se Tu resti, anche questo grosso male passerà.
Signore, grazie! Mi sento meno male al cuore. Domani, no, oggi. C’è già qualcosa di nuovo oggi: ci sei Tu.
[1] Cf. «Magnificat», Lc 1,52.
[2] Mazzolari nel 1918 era stato tenente cappellano militare nella Piccardia, responsabile della cura pastorale delle truppe italiane inviate sul fronte francese.