Con l’inizio dell’Avvento proponiamo una meditazione di Emmanuele Silanos: il silenzio, eco della Notte Santa, è un aiuto a vivere l’attesa di Gesù.
«Prima che sorga l’alba vegliamo nell’attesa, tace il creato e canta nel silenzio il Mistero»1. Le parole di questo inno che appartiene alla tradizione del monastero di Vitorchiano descrivono il senso dell’Avvento. Si tratta della venuta del Verbo di Dio, il Mistero che si fa carne, che diventa tangibile e irrompe nella vita di coloro che lo attendono: «Vegliamo nell’attesa».
La nostra attesa è caratterizzata dal silenzio che è anche lo scenario in cui avviene l’Incarnazione. «Tace il creato» dice l’inno riecheggiando le parole di san Paolo secondo cui la creazione stessa attende la rivelazione (cfr. Rm 8,19).
Perché tacere, perché restare in silenzio? Per ascoltare la voce di Dio che canta in tutte le cose; perché nel silenzio «canta il Mistero».
Silenzio come attesa
O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco;
di te ha sete l’anima mia
(Sal 63)
Il primo capitolo del Vangelo di san Luca racconta due episodi che hanno come protagonista l’arcangelo Gabriele. Egli porta a Zaccaria la notizia dell’imminente nascita di Giovanni (il Battista) e poi annuncia a Maria che ella è stata scelta per essere la madre di Gesù. Di fronte alle parole dell’angelo, la reazione dei due interlocutori potrebbe sembrare identica. Zaccaria infatti domanda: Come potrò conoscere quello che mi dici, dato che mia moglie ed io siamo vecchi? (cfr. Lc 1,18) e Maria, similmente, chiede: Come avverranno questi fatti? Io non conosco uomo… (cfr. Lc 1,34). Eppure deve esistere una profonda differenza tra i loro due atteggiamenti, tanto che l’angelo dice a Zaccaria: Rimarrai muto per nove mesi perché non hai creduto alle mie parole (cfr. Lc 1,20).
Per cogliere la differenza tra la posizione di Zaccaria e quella di Maria, senza addentrarsi in sottili disquisizioni linguistiche, occorre provare a immedesimarsi con loro. Zaccaria è un anziano sacerdote che vive la vecchiaia portando dentro di sé un’inconsolabile delusione. Rimpiange di non aver ottenuto da Dio la benevolenza costituita dalla prole. Per questo il suo cuore è abitato dalla rassegnazione. È un uomo buono, autenticamente credente e rispettoso della legge, ma in fondo non aspetta più. Ogni sua parola, anche la più ingenua e onesta, tradisce un’ultima sfiducia.
L’atteggiamento di Zaccaria è quello che tante volte assumiamo anche noi. I Padri della Chiesa lo chiamano accidia e lo inseriscono tra i vizi capitali. L’accidia è nemica della speranza. È l’ostacolo che si oppone ad ogni attesa e che rende il cuore incapace di stupirsi.
Al contrario di Zaccaria, Maria vive invece nella speranza. Ella è determinata interamente e unicamente dall’attesa. Maria è tutta domanda.
Per entrambi i protagonisti, l’incontro con l’angelo si conclude col silenzio. Per Zaccaria esso è un obbligo, una forma di punizione. Per Maria, invece, il silenzio è una condizione desiderata: è il luogo di una compagnia, la possibilità di un rapporto reale e profondo con la Presenza misteriosa che è entrata nella sua vita. L’angelo si allontanò da lei, dice san Luca, e la sua espressione mette i brividi (Lc 1,38). Ma sappiamo che Maria non rimane da sola.
Dal giorno della visita dell’angelo, la vita di Maria si ritrova ad essere dominata dall’attesa ancora più di prima. Ella attende che la presenza di suo Figlio si sveli pienamente. Attenderà per tutta la vita, con intensità sempre maggiore. Dice don Giussani: «La Madonna… non possiamo immaginarla se non come una domanda continua che la gloria di suo Figlio appaia sull’orizzonte del mondo e che tutti gli uomini la conoscano»2.
Maria ci aiuta comprendere che il silenzio corrisponde alla nostra natura profonda, perché è l’attesa di qualcosa che deve accadere. Ha detto Giussani in un’altra occasione: «Il cuore è fatto di attesa, costruito e concepito come attesa: come una madre concepisce il feto, così Dio concepisce il nostro cuore come attesa. Nel silenzio delle cose, […] ancor prima della parola vibra l’attesa del cuore»3.
Giussani ha messo in luce anche la relazione che sussiste tra l’essere senza peccato di Maria e il suo vivere totalmente nell’attesa: «L’Immacolata Concezione ci dice che la purità dell’essere umano, la limpidezza totale è storicamente avvenuta. […] [Maria è stata] la domanda pura. […] Prima dell’annunciazione fu solo attesa di risposta; e, dopo, fu attesa della manifestazione della risposta, con tutta se stessa»4.
L’atteggiamento originale dell’uomo consiste nella tensione al rapporto con Dio. Assumere la posizione della Madonna significa dunque ritrovare la nostra natura, recuperare l’innocenza originale di fronte all’essere.
Silenzio come purificazione del desiderio
Crea in me, o Dio, un cuore puro
(Sal 51)
Ha scritto Daniélou: «In Maria culmina l’attesa del popolo ebreo, nella misura in cui in Lei convergono e confluiscono tutte le preparazioni, tutte le aspirazioni e tutte le ispirazioni, tutte le grazie, tutte le prefigurazioni che avevano riempito l’Antico Testamento. […] Tutto l’Antico Testamento viene così a raccogliersi in Lei in una aspirazione più ardente, in una preparazione spirituale più totale alla venuta del Signore»5.
L’intera storia del popolo d’Israele è una preparazione ad accogliere la venuta di Cristo e nella Vergine contempliamo il risultato magnifico di quest’opera educatrice di Dio. In Maria si chiarisce infatti l’oggetto del desiderio dell’uomo, che è la grazia: «San Bernardo ci dice che Maria domandò la grazia come unica cosa da Lei desiderata: et semper inveniat gratiam. Non fece come Salomone che domandava la sapienza. Chiese la grazia, Maria, perché la grazia è la sola cosa di cui noi abbiamo bisogno. […] Ha chiesto la grazia e l’ha ottenuta: Ave Maria gratia plena»6.
Si comprende allora che il culmine del silenzio vissuto come attesa è la purificazione del desiderio. Il silenzio infatti è sempre pieno di domande e di richieste che solo il tempo aiuta a mettere a fuoco nella loro verità, in un cammino che raggiunge il suo vertice nell’attesa della grazia.
Vivere il silenzio significa dunque ripercorrere l’itinerario lungo il quale Dio ha guidato al Suo popolo, cominciando dall’educazione al al senso di Dio per arrivare infine a Maria, in cui l’attesa diventa domanda della pura grazia.
La caratteristica della grazia di Dio è che essa supera infinitamente l’uomo. Dice a questo proposito von Balthasar: «Appartiene indispensabilmente al metodo biblico-cristiano il fatto che l’uomo venga esercitato a sperimentare che con nessun esercizio, nessuna forma di prontezza può procurarsi, può costringere l’avvento di Dio. Perciò la via cristiana a Dio deve includere necessariamente l’esperienza della desolatio, della non esperienza dell’avvento di Dio. Il grado della purezza e della prontezza interiore può essere lo stesso in una duplice forma: una volta mi può essere concessa un’esperienza dell’attenzione e della vicinanza di Dio, l’altra volta no. Nelle parabole di Gesù bisogna semplicemente vigilare, senza sapere quando viene il Signore o lo sposo»7.
Da Maria impariamo che ci è chiesto di attendere Dio senza la pretesa di ottenere risposte in tempi e modi stabiliti da noi. Infatti il silenzio può essere arido per mesi e addirittura per anni, come testimoniano le vite di tanti santi, da Teresa di Lisieux a madre Teresa di Calcutta.
Silenzio come contrizione
Lavami da tutte le mie colpe
(Sal 51)
Benedetto il Signore Dio d’Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo
(Lc 1,68)
Subito dopo il parto, Elisabetta, moglie di Zaccaria, dichiara di voler chiamare il bambino Giovanni. I parenti, stupiti, interpellano il vecchio muto. Lui chiede una tavoletta per scrivere e conferma il nome del figlio. In quel momento la sua lingua si scioglie.
È facile immaginare che Zaccaria, durante i nove mesi di forzato mutismo, si sia sentito umiliato. È probabile che tante volte abbia sentito il desiderio di spiegarsi, di giustificarsi, di raccontare la propria versione di quanto era accaduto nel tempio. Appena ritrova l’uso della voce, però, Zaccaria non si mette a protestare, non si lamenta né perde tempo a cercare giustificazioni per quanto è accaduto. Prorompe, al contrario, nel più potente e ispirato canto di lode e di ringraziamento a Dio che conosciamo: il Benedictus, che recitiamo ogni mattina durante le lodi, esprime il contenuto profondo di quei nove mesi trascorsi nel silenzio. Il Benedictus è una preghiera che senza silenzio non sarebbe mai nata.
Zaccaria capisce che il tempo del silenzio è stato per lui un dono, un dono ancora più grande dello stesso figlio, perché senza silenzio non avrebbe compreso il significato del figlio.
Emerge così una terza accezione del silenzio, che è il valore del silenzio come contrizione: il vero silenzio ci aiuta a crescere nella consapevolezza del nostro peccato e nella gratitudine per la misericordia di Dio. Dice don Giussani: «È solo con la contrizione che l’incombenza di Cristo e l’imminenza di Cristo sono splendidamente vive in noi. […] La contrizione nella giornata, la contrizione della sera a del mattino – che investa il più possibile tutta la nostra giornata, che il più possibile tenda a diventare inizio di azione –; ma soprattutto la contrizione all’inizio della messa e nel sacramento della confessione»8.
Il Benedictus è il canto in cui si fa memoria delle meraviglie di Dio presso il Suo popolo. Ma il passaggio più bello di questo inno di lode coincide con il momento in cui, all’improvviso, Zaccaria cambia interlocutore e si rivolge direttamente al figlio. Fissandolo gli dice: E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade (Lc 1,76) Lo sguardo di Zaccaria è lo sguardo che nasce dal silenzio, perché è lo sguardo di un padre che riconosce che il figlio, ultimamente, non gli appartiene. Zaccaria guarda più suo figlio come il proprio riscatto, la propria rivincita sulla vita, ma lo guarda per la missione alla quale è chiamato, lo accoglie secondo ciò che Dio ha pensato per lui. Il suo sguardo è lo sguardo della verginità.
Silenzio come ascolto e come gioia
A te grido Signore, non tacere:
se non mi parli sono come chi scende nella fossa
(Sal 27)
Ha scritto Charles de Foucauld: «Il deserto mi riesce profondamente dolce; è bello e salutare porsi nella solitudine di fronte alle cose eterne; ci si sente invasi dalla verità»9.
Giovanni Battista, diventato grande, fugge il mondo per cercare il silenzio e la solitudine. Cerca appunto il deserto. Forse è per questo che siamo abituati a pensare a lui come a una persona dura e scontrosa, quasi un misantropo. In realtà Daniélou lo definisce «l’uomo della gioia spirituale» e dice che egli è «il santo più esultante della Scrittura»10. Non è un caso che la sua vita inizi con un sussulto di giubilo quando, ancora nel ventre della madre, riconosce la Madonna che porta in grembo Cristo.
Daniélou dice che la gioia del Battista è «quella di udire la voce del Signore»11. È questo il motivo per cui egli va nel deserto, anticipando i grandi padri eremiti e lo stesso Gesù. «Cerca scampo nel deserto perché niente lo distolga da quella gioia»12, per godere la compagnia dell’amato, per ascoltare la dolce voce dell’amico.
Il silenzio è il luogo dell’ascolto e della gioia, il che non toglie nulla all’esperienza della contrizione: «Ciò che più impressiona è il trovare in lui quel grande spirito di penitenza e, allo stesso tempo, questa esultanza interiore, la fusione della penitenza estrema e della gioia estrema. D’altronde, estrema penitenza ed estrema gioia si uniscono sempre: i più grandi penitenti sono gli uomini maggiormente lieti! Non vi ha letizia più grande di quella di Francesco d’Assisi, di Giovanni della Croce, del Curato d’Ars…»13.
Arriva il momento in cui si scopre che il silenzio è la gioia di chi trova in Cristo il vero riposo. L’aridità, le stanchezze e le distrazioni non scompaiono, ma la gioia assaporata e goduta nel silenzio, anche solo in qualche istante, resta nel cuore come una compagnia e un’esigenza inestirpabile. Così il silenzio tende a coincidere sempre di più con un’esperienza di gaudio che inonda di letizia le azioni e gli incontri quotidiani.
La gioia del silenzio è l’esultanza per la presenza dello sposo. Se venisse meno il rapporto con Gesù, il silenzio perderebbe il suo senso. Durante un incontro di qualche anno fa, padre Mauro Lepori ci ha detto: «Noi non abbiamo bisogno del silenzio: abbiamo bisogno del Signore, e dentro questo bisogno abbiamo bisogno anche del silenzio».
Il silenzio cristiano è diverso dalla meditazione orientale perché non è uno spazio svuotato da tutto, ma un luogo abitato da Cristo in modo privilegiato.
Silenzio, origine della missione e della verginità
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza
(Sal 16)
La gioia di Giovanni si compie nella missione che gli è affidata, che coincide con un compito di testimonianza. Dice ancora Daniélou: «Questa è tutta la sua gioia: vedere la sposa trovare lo Sposo. Non desidera altro. Non desidera che una cosa sola: condurre le anime al Cristo, e che le anime trovino Lui! Allora il suo gaudio è perfetto. È perfetto quando i discepoli lo abbandonano per seguire Gesù»14.
Il silenzio è l’origine della nostra missione perché non consiste nel pensare a ciò che dobbiamo dire agli altri, bensì nel metterci in ascolto di ciò che Dio dice a noi. Per questo Guardini afferma che il silenzio è la condizione per poter riconoscere la verità e anche per poterla annunciare: «La parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio. […] Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola»15.
In un altro passaggio Guardini indica nel silenzio l’unica condizione della nostra costruttività: «Solo nel silenzio può costituirsi la comunità, solo nel silenzio si può edificare la Chiesa»16.
Nel silenzio si impara anche la verginità. Don Massimo ci ha sempre richiamato a portare il rapporto con gli altri dentro al rapporto vissuto con Cristo. Nel silenzio si impara a consegnare a Dio il volto degli uomini, si impara a guardarli – per usare un’espressione di Giussani – avendo nella coda dell’occhio la presenza di Gesù.
In una lettera alla Fraternità, don Massimo ha scritto: «Nella vigilanza assumiamo un altro sguardo, diventiamo capaci di guardare il mondo con gli occhi della fede. La vigilanza ci permette di non fermarci alla superficie, ma di entrare nelle cose, di guardare le cose che tutti guardano con gli occhi di Cristo».
Il rapporto tra silenzio e verginità è intuibile da chiunque si interroghi profondamente sulla propria esigenza di amare e di essere amato con verità. Anche Paulo Coelho, scrittore certamente non vicino alla nostra esperienza, testimonia tale intuizione. Il suo romanzo L’alchimista racconta di un ragazzo di nome Santiago che lascia la propria casa «come un avventuriero in cerca di un tesoro»17. Nel deserto incontra una ragazza, Fatima, della quale si innamora. Lei lo ricambia, ma lo invita a continuare il suo viaggio. Santiago si ritrova combattuto e triste: ama Fatima e non vuole lasciarla, ma sa anche che non può possederla. Allora chiede al deserto di comprendere il significato dell’amore «senza il sentimento del possesso»: «S’incamminò senza mèta, tenendo sempre d’occhio le palme dell’oasi. […] Poi si sedette sopra un sasso […]. Non riusciva a concepire l’Amore senza il sentimento di possesso. Ma Fatima era una donna del deserto, e se c’era qualcuno che avrebbe potuto insegnarglielo, questo era il deserto. […] Il deserto, forse, avrebbe potuto spiegargli l’amore senza possesso»18.
Vivere la verginità significa restituire le persone che ci sono affidate a Colui al quale appartengono, chiedendo a Dio di comprendere come amarle veramente. È una domanda che può risuonare solamente nel silenzio.
Silenzio come contemplazione
Il tuo volto, Signore, io cerco
(Sal 27)
«Insegnami a cercarti e mòstrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti»19.
Queste parole di sant’Anselmo esprimono il contenuto ultimo del silenzio, il segreto che si svela poco a poco, magari dopo anni di cammino. Per comprenderlo è bello e utile fissare l’attenzione sull’icona del Cristo Salvatore di Andrej Rublev. Si dice che le fattezze del volto di Gesù siano state rivelate a Rublev direttamente da Dio.
L’opera risale agli inizi del XV secolo, ma era andata perduta ed è stata ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, per caso. Era nel fienile di un contadino russo, usata come passaggio per accedere alla stalla, con la parte dipinta rivolta verso il basso. Il contatto con terreno umido ha fatto sparire gran parte dell’immagine. Dal legno, però, emerge ancora una macchia di colore che raffigura il volto di Cristo. Il resto della tavola è rovinato, ma il volto di Gesù, come per miracolo, si è conservato.
La storia di questa icona può essere paragonata al silenzio, che permette al volto di Cristo di emergere dalla confusione, dal rumore, dalla distrazione in cui la nostra vita è sempre immersa. Vivere il silenzio significa permettere al volto di Gesù di farsi spazio nelle nostre giornate. Significa implorare di rivederlo, dopo la prima volta in cui, per grazia, si è mostrato.
Silenzio come imitazione di Cristo
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
(Fil 2,5)
C’è un ultimo aspetto, che forse avrebbe dovuto essere descritto prima degli altri: vivere il silenzio significa entrare nell’esperienza stessa della vita di Cristo.
Il silenzio definisce la modalità con cui Gesù affronta tutta la realtà, perché se per la Madonna il silenzio coincide con l’attesa che il Figlio si riveli pienamente, per Gesù esso coincide con la domanda che si riveli il Padre.
In Gesù ritroviamo tutte le profondità del silenzio: l’attesa che si compia il disegno del Padre, il bisogno di ritirarsi per ascoltare la Sua voce, l’esultanza per la Sua risposta, la verginità come modalità di vivere ogni rapporto… Non solo i quaranta giorni trascorsi nel deserto, ma ogni ora della vita di Gesù appartiene alla dimensione del silenzio.
Gesù ha vissuto in pienezza l’esperienza cui siamo chiamati attraverso il silenzio. Solo la contrizione non è riferibile a Cristo, anche se Egli, attraverso la compassione, partecipa in un certo modo al nostro dolore per i peccati e al nostro pentimento – pensiamo al suo silenzio di fronte alla donna adultera, alla sua commozione davanti a Gerusalemme, al suo pianto per la morte di Lazzaro… pensiamo soprattutto alle sue lacrime nella notte del Getsemani –.
Il silenzio ci rende imitatori di Cristo, permettendoci di realizzare il supremo compito della nostra vita. Chiediamo dunque a Dio che il tempo dell’Avvento sia l’occasione per riscoprire il valore e la bellezza del silenzio, affinché Cristo venga ad abitare ogni istante della nostra esistenza, ogni azione, ogni incontro, ogni circostanza.
Note al testo
1) Prima che sorga l’alba, inno delle Trappiste di Vitorchiano, in Canti, Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2014, 172.
2) Cfr. L. Giussani, L’energia che occorre alla fede, «Tracce», 5 (2008).
3) L. Giussani, Tutta la terra desidera il tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 54.
4) A. Sicari (a cura di), Intervista a monsignor Luigi Giussani, «Communio», 98-99, (1988), 214.
5) J. Daniélou, Il mistero dell’Avvento, Morcelliana, Brescia 1962, 111.
6) Ivi, 116. 7 H.U. von Balthasar, Nuovi punti fermi, Jaca Book, Milano 1980, 88.
8) Cfr. L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Milano 2008, 18-19.
9) Cfr. C. de Foucauld, Lettera a Marie de Bondy, in «Jesus Caritas», 70 (1998).
10) J. Daniélou, Il mistero dell’Avvento, cit., 77.
11) Ibidem.
12) Ibidem.
13) Ivi, 78.
14) Ivi, 83.
15) R. Guardini, Il testamento di Gesù, Vita e pensiero, Milano 2005, 35-36.
16) Ivi, 34.
17) P. Coelho, L’alchimista, Bompiani, Milano 1995, 56.
18) Ivi, 113-114.
19) Anselmo d’Aosta, Proslogion, 1.