Pagine

Pagine

domenica 2 dicembre 2018

L'Osservatore Romano: Credenti nella notte

Vivere l’Avvento tra veglia e attesa


«Vegliate!» è la parola del Signore che fa avvenire l’Avvento, lo fa essere, lo fa cominciare ancora una volta, creando al tempo stesso la venuta e l’attesa. Ci sono parole, come questa, «Vegliate!», che quando risuonano hanno la capacità di dar vita a un mondo, disegnare orizzonti, rievocare immagini e sentimenti, ma anche paure e speranze. «Vegliate!» risuona nel momento stesso in cui attorno a noi la natura, sfinita per i frutti, si addormenta nel sonno dell’inverno e le giornate vedono diminuire la luce e crescere la notte. Non a caso è in questi giorni che la Chiesa inizia la liturgia dell’Avvento, i giorni più bui dell’anno e dunque giorni del lungo vegliare. Questi sono i giorni nei quali la luce è desiderata e invocata più che mai, fino a Natale che, tradizionalmente, è il giorno nel quale il sole e la sua luce tornano a vincere le tenebre.



La nostra vita umana e spirituale, con i suoi tempi e la sue stagioni, con il suo ritmo quotidiano così ripetitivo e uniforme, in realtà forma un tutt’uno con il ritmo della natura. Ritmo umano e ritmo cosmico, ritmo dello spirito e ritmo della terra sono una cosa sola, a dire che la natura non è il fondale dei nostri giorni, la natura non vive solo attorno a noi ma vive con noi fino a vivere in noi. L’Avvento è tempo liturgico perché è iscritto nel libro della natura tanto quanto è scritto nel libro liturgico. Riconoscere l’Avvento in tutto ciò in cui c’è un alito di vita, significa comprendere che in ogni cosa c’è un’attesa, ogni essere contiene in sé un avvenire, ogni vivente attende una venuta. In tutto questo si iscrive l’attesa di noi cristiani che invochiamo il Veniente, facendoci voce di ogni creatura: «Marana tha! Vieni, Signore Gesù». Umani, animali, creature animate e inanimate, tutto e tutti attendiamo, tutto e tutti gemiamo nell’attesa. Niente e nessuno è privo di attesa. Per questo, entrare nello spirito dell’Avvento non significa semplicemente entrare in chiesa per compiere riti secolari, ascoltare letture bibliche e preghiere antiche, ma molto più in profondità significa accedere a una dimensione dello spirito che ci appartiene. Non c’è vita piena là dove non c’è capacità e volontà di vegliare.

«Vegliate!», ci comanda il Signore. L’esatto contrario della vigilanza è la noncuranza. L’Avvento è il tempo dell’uomo e della donna che lottano contro lo spirito della noncuranza che si manifesta in tanti e diversi modi. Si manifesta come indifferenza e insensibilità verso le persone, come superficialità nei rapporti, disinteresse verso le situazioni e i momenti, inconsapevolezza del peso delle parole e del valore del linguaggio, incuria degli oggetti, trascuratezza dei luoghi. La noncuranza prende la forma della dimenticanza, della mediocrità assunta a canone, della trascuratezza che a lungo andare amareggiano la vita propria e quelle altrui. La negligenza, le piccole e reiterate omissioni poco a poco erodono il desiderio fino ad annientarlo. La noncuranza è di chi ha uno smisurato amore per sé. Esistere solo per se stessi porta a non vedere l’altro, non riconoscerlo per quello che è, condannarlo all’irrilevanza fino a togliergli la vita senza ucciderlo. Come credente, come posso attendere il Signore se non mi accorgo di chi mi vive accanto? Vegliare significa opporsi tenacemente all’incuria esercitando il desiderio di vedere volti e ascoltare voci finanche di animali e di cose. Veglia e attende colui che ha cura e interessamento per tutti e tutto. Aver cura significa riconoscere il valore di ogni singola persona e di ciascuna relazione. Vuol dire riservare grande attenzione alla singola parola, al gesto più semplice e quotidiano, parole e gesti che giorno dopo giorno fanno una vita. Veglia chi dichiara che nulla e nessuno gli è estraneo, e rinuncia a dire: «Non mi interessa».

«Vegliate!», ci comanda il Signore. Ma si può anche fingere di vegliare. Simulare la vigilanza è ipocrisia: all’esterno mostrarsi vigilante ma dentro dormire. L’esatto contrario della vigilanza è l’ipocrisia, la falsità, l’insincerità, la finzione e la doppiezza. Colui che veglia è l’opposto dell’ipocrita perché per vegliare occorre essere tutto lì dove si è senza escludere nulla di sé. L’attitudine interiore della vigilanza domanda l’interezza e non la doppiezza. I comportamenti personali diventano comportamenti sociali e prendono il nome di conformismo, perbenismo, moralismo. Demandare ad altri è l’esatto contrario del vigilare. Non vigilare è delegare invece di assumere in prima persona la responsabilità, la scelta, l’onere. Per essere vigilanti è necessario essere liberi da se stessi e dal giudizio degli altri. Infatti, l’opposto dell’ipocrisia è la libertà. «Il tuo volto Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Salmi, 27, 8-9): come si può pregare dicendo di cercare il volto del Signore quando si nasconde il proprio vero volto agli altri?

«Vegliate!»: questa parola del Signore contiene in sé tutta l’intensità di un imperativo. Gesù non fa una semplice esortazione, ma dà ai suoi discepoli e a noi un comando, e dice: «Fino al mio ritorno il vostro modo di essere credenti e il vostro modo di stare nel mondo sia un vegliare, sia un’attendermi nella notte». È dunque Gesù a istituire la notte come il tempo e il luogo della nostra fede. Per questo noi cristiani siamo credenti nella notte non perché il mondo nel quale viviamo è solo tenebra, solo male e solo peccato, ma perché il Signore ha voluto lui collocarci nella notte e non in pieno giorno. Non siamo stati noi a scegliere la difficile condizione di essere credenti nella notte. Per credere nella notte il Signore ci ha dato l’unica cosa necessaria a chi sta nel buio, una lampada: «Lampada per i miei passi è la tua parola» (Salmi, 119, 105). Disponiamo solo della piccola fiamma di una lampada. Ma una fiamma non illumina tutto, non permette di vedere tutto ma solo quanto basta per muovere i passi. Per questo, la nostra fede, come la Parola che la genera, è solo una piccola fiamma che non consente di vedere come in pieno giorno, non possiede la chiarezza su tutto, e dunque non dà certezze incrollabili, non offre verità assolute da imporre con forza, non permette l’arroganza di chi presume di possedere tutta la verità.

I credenti nella notte cercano la verità con la stessa fatica con la quale nel buio si cerca il cammino: a tentoni, spesso sbagliando e andando fuori strada. Vegliare in questo Avvento sarà dunque per noi rimanere credenti nella notte, vegliando a non trasformare la fiammella della nostra fede in un sole abbagliante che acceca tutti. La notte sia sempre la misura della nostra fede perché, se cediamo alla tentazione di voler vedere e sapere tutto, non vivremo più nello spazio della fede, ma delle certezze, e noi non saremo più dei credenti. Essere credenti nella notte, come Gesù ci ordina, significa inoltre prendere coscienza che la notte è il tempo del silenzio, delle voci basse, dei sussurri, del mormorio sommesso. Nella notte non si grida, non si alza il tono, non si fa udire in piazza la propria voce. Gesù, istituendoci credenti nella notte, vuole che la sua parola, il suo vangelo si misuri con il silenzio della notte. Il vangelo, infatti, non è un’ideologia di cui far propaganda nelle piazze di questo mondo, non è un prodotto da svendere sul mercato e per questo non va né gridato né sbandierato. Il vangelo è una buona notizia, e la notizia buona la si racconta. Un racconto si addice più all’intimità e al silenzio della notte che alla piazza affollata di gente nell’ora di mezzogiorno.

Vegliare in questo Avvento sarà dunque per noi saper raccontare il vangelo senza infrangere il silenzio della notte.

Gesù, in fine, fa di noi dei credenti nella notte in attesa, e colui che attende fa anzitutto l’esperienza dell’assenza, della mancanza, del vuoto, del non avere tutto e subito. Attendere è sempre invocare una presenza, una pienezza, un compimento. Essere credenti in attesa significa, allora, stare nel mondo non come chi possiede già tutto e non ha nulla da aspettarsi, ma come coloro che mancano non solo di qualcosa, ma mancano dell’essenziale: del loro unico Signore. Noi credenti spesso stanchi, delusi, a volte frustrati da duemila anni di attesa, siamo tentati di colmare questa mancanza, di riempire questo vuoto tanto difficile da sostenere.

L’apostolo Pietro già conosceva la fatica di rimanere cristiani in attesa e scriveva alla sua comunità: «Verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi […] e diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione”» (2 Pietro, 3, 3-4). Questi schernitori beffardi sono pronti a offrirci ciò che a noi manca: un signore da servire, un regno da governare. A questo si cede spesso in nome di un pragmatismo cristiano, che si preoccupa più di difendere il cristianesimo e suoi interessi che di Cristo e della sua venuta. Così, da cristiani si diventa cristianisti, cioè coloro che amano il cristianesimo più di quanto amano Cristo. Questo Avvento rinnovi in noi la consapevolezza di essere credenti nella notte in attesa del Signore, sapendo che questa attesa è necessariamente anche virtù politica, ovvero un modo di stare da cristiani nella polis confessando: «Ci sono molti dèi e molti signori, ma per noi c’è un solo Dio [...] e un solo Signore: Gesù Cristo» (1 Corinzi, 8, 5-6).

Cantare Rorate cœli desuper (“piovete cieli dall’alto”) significa gridare al cielo invocando da lui ciò che non possiamo dare da noi quaggiù. Significa riconoscere che ogni essere umano è abitato da un desiderio così profondo che la terra non può saziare. Rorate cœli desuper lo canta solo chi ha l’umiltà di ammettere che non solo non ci si può dare tutto, ma che l’essenziale che ci fa vivere lo riceviamo, certi che l’unica salvezza è la vita di un altro, di un Altro. Sappiamo che il passato non ce l’ha data, comprendiamo che il presente ne è del tutto incapace, allora la attendiamo nel futuro e, invocandolo, la attraiamo a noi. «Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada» (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, 12 agosto 1904).

di Goffredo Boselli
Monaco di Bose