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domenica 9 settembre 2018

Osservatore Romano: Alla macchinetta del caffè

· Prontuario spirituale per studenti pragmatici ·

 Tra la a e la z si incontra la lettera c come caffè. «Quello della moka da sei, nella tazza grande della colazione, tenuta stretta con due mani, nelle sere d’inverno: davanti al libro, dentro la tuta, raggomitolati. Compagno di notti di studio quando ormai all’esame manca una manciata di giorni. Quello nero che ti guarda storto ma che ti coccola con i suoi vapori e le sue fragranze. Quello che ti dice: “Come al solito ti sei ridotto all’ultimo”; quello che supplichi: “Per favore non mollarmi: tienimi sveglio”».

Bortolo Uberti, autore di Icaro nella giungla. Prontuario spirituale per studenti pragmatici (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2017, pagine 120, euro 11), di giovani se ne intende. Oggi parroco in periferia, è stato a lungo cappellano dell’università degli Studi di Milano, gomito a gomito con ragazzi di cui conosce le fragilità e i punti di forza. Nel piccolo volume tratteggia una vera e propria spiritualità dello studente, a partire dalla sua familiarità con i pensieri ricorrenti e i gesti quotidiani di una generazione spregiudicata e laboriosa, distante dal cristianesimo quanto assetata di autenticità.

Ventisei capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto, senza parole inutili o ragionamenti farraginosi. Al contrario, la fede rende qui nominabili le cose d’ogni giorno, quasi a rilevarne la dignità, lo spessore, l’autentica profondità. Dall’interno di quel vortice che, specie dopo l’estate, risucchia molti giovani tra piani di studio, appelli e lezioni, lo Spirito è avvertito e descritto in azione.

Ciò che da secoli la Chiesa canta — non solo mentes tuorum visita, ma anche accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus — nelle pagine di Uberti sembra plasmare il tempo dell’università, integrando sensi, cuore e mente in un’armonia che non s’improvvisa: sorge solo se coltivata e accolta.

Così, a una cultura del dovere, già soppiantata dall’imperativo del “se mi va”, il cristianesimo dimostra di opporre un gusto del bene tangibile e convincente, che chiede sì esercizio e attenzione, ma non ruba leggerezza e libertà.

Come nei padri della Chiesa antica, la vita buona e il combattimento necessario a farla prevalere sono rappresentati nella loro dinamica concretezza. Non di principi, infatti, ma di una fenomenologia si alimenta questa spiritualità incarnata, che evita in origine di separare fede e vita. Il padre spirituale sa bene, ad esempio, che «l’ansia è nemica della sapienza. Nasce dall’affanno dell’efficienza e della prestazione, ma soprattutto affonda le proprie radici nella presunzione di bastare a se stessi, di potercela fare per conto proprio. L’ansioso è convinto che tutto dipenda da lui e che, allo stesso tempo, lui non sia all’altezza del compito o non ne abbia le risorse. In questi momenti occorre fermarsi». Tuttavia, per assecondare lo Spirito, la buona guida non rimprovera ai giovani le convinzioni sbagliate e non dà istruzioni che generino ulteriore affanno.

Al contrario, dopo avere a lungo ascoltato, descrive ironicamente il nemico che «s’insinua di soppiatto, dalle retrovie, eludendo barricate e tattiche di difesa. Prime vittime a cadere sotto le sue lame affilate sono le matite, poi le unghie. Perché ha i denti, l’ansia: che smozzicano, tritano, torturano. Cadono anche gli amici, morsicati dal nervosismo spigoloso e aguzzo. E infine i genitori e i familiari in genere, addentati da quella tensione per cui ogni parola è una miccia accesa che fa esplodere la dinamite. Ma a stare male, più di tutti, è il portatore — insano — di ansia. S’insinua dallo stomaco. Perché lei abita lì. Se ne sta assopita a lungo, prima di girarsi e rigirarsi e poi stiracchiarsi assonnata fino a metter giù i piedi e ad andare in giro, rovinando la giornata, la settimana, la vita. Basta poco a svegliarla: un esame, magari solo parziale, una scadenza, un piano di studio da consegnare, un libro di lunghezza maggiore del previsto o inversamente proporzionale al tempo per studiarlo, una decisione da prendere, una risposta da dare... Così lei comincia a stringere lo stomaco, poi a chiuderlo, e quando cresce lo contorce e lo ribalta. Finisce per trasformarsi in brufoli; o, più spesso, in divoratore insaziabile di risorse».

Lo studente trova qui comprese le sue paure, le vede esorcizzate, avverte la possibilità di una compagnia in cui il cuore sia risanato.

In ogni capitolo l’autore non esita, infatti, a indicare nelle Scritture squarci di una vita liberata: la Bibbia appare come il grande codice di riferimento, che rende decifrabili anche momenti complessi e tensioni inevitabili. È canone, unità di misura, criterio di discernimento. Uberti dimostra di aver chiaro ciò che molti sembrano non concedersi più: «Si studia per prepararsi a una professione e al proprio futuro, certo, ma questo non esclude né il gusto, né la passione.

E il gusto non è un’idea; è qualcosa che tocca i nostri sensi, che si sente in bocca, che si assapora e riempie lo stomaco». Dei giovani conosce la concretezza, la fisicità. Per questo può scrivere che «lo studio non finisce solo nella testa, ma anche nel palato e sulla lingua».

Per introdurre un criterio, rivoluzionario nella sua semplicità: «La passione non concerne “il resto”, cioè quello che viene dopo una lezione e lo studio. La passione deve stare dentro ogni pagina di un testo, ogni riga degli appunti, ogni ora di insegnamento. Vale per lo studente come per il docente.

Il gusto e la passione prendono spessore con la pazienza del tempo dedicato, come un buon vino acquista corpo maturando nella botte. La bellezza dello studio prende forma quando il sacrificio e la fatica non sono maledizione ma pennelli e colori nelle mani del pittore, o lo scalpello in quelle dello scultore». Si può allora intravvedere in che senso l’icona più alta della bellezza sia la croce di Gesù, «perfezione dell’amore intrisa nel limite estremo dell’umano. Sintesi e vertigine del senso. Capolavoro. Nelle trame di ore di lezione e di studio deve affiorare un frammento di questa bellezza. Se no non “serve” a niente». È un’avventura condivisa, l’università; ma lo è la vita cristiana stessa, che tra i banchi può crescere o addirittura nascere.

Nessuno, infatti, può darsi da sé un respiro così profondo e una sensibilità tanto accesa. L’armonia interiore è sempre precaria e le migliori determinazioni sono esposte al logorio di insidiosi nemici.

Esistono, certo, le cappellanie. Ma, forse, prima ancora il caffè: «L’altro. Quello della macchinetta, nei corridoi o negli androni dell’università. Quello corto con la cremina, nel bicchierino di plastica molle: 30 centesimi tutto compreso, zucchero e bastoncino. Preso di corsa, tra un’ora e l’altra o dopo un panino trangugiato a pranzo: quello delle quattro chiacchiere, degli incontri imprevisti o della battuta con chi non conosci». Le amicizie sorgono generalmente così. Lo Spirito stesso pare confidare nel fatto che «l’università non è fatta solo di aule e biblioteche, ma anche di macchinette del caffè».

Il sapere e la conoscenza, ma persino i cristiani, crescono solo nell’incontro.

di Sergio Massironi