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giovedì 27 settembre 2018

L'ateo E Il Monaco - Una Storia

La seguente storia è tratta dal libro Il nascondiglio della gioia. Parabole sul mestiere di vivere, Tau Editrice 2018. 


Un ateo, terribilmente polemico, arrivò un giorno nel pacifico eremo del monaco Teoforo.
«Ti dimostrerò che Dio non esiste. Voglio dibattere con te in pubblico, davanti a tutti! Voglio che la gente capisca, una volta per tutte, che Dio non esiste!», così interruppe l’ateo feroce il silenzio orante del monaco che pregava lavorando e lavorava pregando, passando così la sua giornata in un angelico silenzio tra la sua umile cappellina e il suo generoso orto che curava, ma di cui mangiava solo le erbe amare, dando tutto il resto in beneficienza ai poveri del paese.
La gratuita aggressività dell’ateo fu assorbita e pacificata dal silente sorriso dell’eremita che guardò l’ateo con una tenerezza materna e paterna al contempo.
Dopo istanti di silenzio, il monaco disse: «Sono un uomo che cerca la pace e non amo la polemica. Ma non voglio dirti di no. Parliamo figliolo».
«No! No! – interruppe duro l’ateo volendo “esorcizzare” la pace che il monaco emanava – ci vediamo domenica! In pubblico! Ci vediamo a mezzogiorno, dopo la messa parrocchiale, cosicché tutti capiscano che hanno appena perso un’altra ora della loro vita dietro al nulla».
«Va bene figlio! A domenica!».
Tornati in città, l’ateo e i suoi assistenti cominciarono da subito a pubblicizzare il dibattito. Arrivato il giorno prefissato, già due ore prima dell’evento, l’ateo prese il suo posto sul pulpito, pronto a sbranare l’avversario con gli argomenti. Mentre aspettava, si mise ad invitare chi entrava in chiesa a fermarsi per assistere allo spettacolo della morte di Dio. Non a una morte e risurrezione, come predica la loro fede. Ma alla sua morte definitiva.
Suonò la campana di mezzogiorno ma del monaco neppure l’ombra. L’ateo sorrise e diventò sempre più sicuro di sé.
Passò un quarto d’ora e gli venne la voglia di fare una battuta: «Che Dio non esiste lo so. Ma adesso inizia anche a venirmi il dubbio sull’esistenza del vostro eremita».
Dopo un altro lungo quarto d’ora, mentre l’ateo si stava apprestando a prendere la parola per tirare le sue conclusioni dall’assenza del monaco, apparve nella distanza in controluce la silhouette di Teoforo che camminava a passo celere per recuperare il ritardo accumulato.

«Eccolo! Quasi quasi pensavo ti fossi ritirato dalla disputa per paura».
«Scusatemi se vi ho fatto attendere», disse Teoforo, aggirando la testa sorridendo con la volontà di salutare tutti i presenti.
«E scusami anche tu figliolo», disse all’ateo avvicinandosi al palco, «ma, venendo, uno spettacolo unico mi ha distratto e ho perso la concezione del tempo».
«Tutte scuse! Cosa mai è successo di così interessante da farti distrarre dal nostro duello?», chiese l’ateo.
«Mi stavo accingendo ad attraversare il fiume ed ecco che davanti a me, in un punto nell’aria, appare improvvisamente dal nulla un seme. Guardo bene ed ecco che il seme inizia a fiorire e non tarda a diventare un albero. Poi ecco che l’albero, con la frizione con l’aria, inizia a tagliarsi i rami e a formare pian piano quello che poi è diventato una bella barca a vela…».
Si fermò un istante e proseguì: «Mi capirai! Davanti a una scena che non capita tutti i giorni, non potevo che perdere la concezione del tempo!».
«Ma sei matto!», rispose l’ateo con gli occhi sgranati. «Un seme dal nulla? Un seme non può venire dal nulla! E poi, una barca a vela che si forma da sé?! Come puoi anche pensare che io possa credere a una storia così?».
Senza scomporsi minimamente, il monaco riprese: «“Un seme non viene dal nulla”. Hai detto benissimo. E tu vuoi farmi credere che, non un minuscolo seme, ma tutto questo universo sia frutto del nulla?».
L’ateo balbettò un «ma… però…», ma non trovava altre parole e il monaco riprese: «Tu non puoi credere a una barca a vela che si forma da sé e vuoi farmi credere che tutto questo complesso e ricco universo si sia auto-generato?».
Poi estrasse dal suo taschino un orologio e, voltandosi verso il popolo, chiese: «Il nostro fratello dice che l’universo è frutto del caso. Noi diciamo che il “caso è cieco”. Ebbene, fratelli, se vi dicessi che questo orologio è stato costruito da un orologiaio cieco, cosa direste?».
«Impossibile», rispose un signore che era in piedi in prossimità del palco.
«Direi che sei matto», replicò un ragazzo, continuando a guardare il monaco in attesa che continuasse la sua riflessione.
«E perché mai diciamo che è impossibile? Perché fratelli? Non è forse per la complessità costruttiva che non può essere frutto di un arrangiamento casuale e cieco? Ebbene, questo universo è molto più complesso e molto più mirabile di un orologio. Dietro a questo universo non c’è un orologiaio cieco, ma un Padre. Un Padre che creò guardando alla creazione e dicendo che è cosa bella e buona. Un Padre che guardò all’uomo e alla donna e disse: è una cosa molto bella. Questo sguardo d’amore è posato su di noi anche oggi. Il Padre ci guarda, guardiamolo anche noi nello specchio della creazione!».
Le parole del monaco illuminarono le intelligenze e riscaldarono i cuori. E mentre il popolo si stava accingendo ad applaudire la fine di un dibattito durato poco, il monaco alzò la mano, non volendo che dall’incontro uscissero vinti o sconfitti, e disse: «Non ci siano vincitori o sconfitti, oggi, ma solo fratelli che riconoscano di essere figli e non orfani».

Disse questo e si guardò intorno e intonò un canto di lode filiale: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento…».

sabato 15 settembre 2018

L'Osservatore Romano: Quel grido dall’altare · Don Pino Puglisi ·

La fede concreta non mira a generare risultati, ma rivoluzioni. Non occupa spazi, ma inizia processi di speranza. La vita di don Pino Puglisi è tutta qui, in questo rovesciamento deciso del trono del male con il suo martirio. Sono certo, infatti, che chi vive per difendere il bene, fino alla completa consumazione di sé, non muore invano. È la prerogativa di chi vive per il Vangelo e di solo Vangelo, con addosso solo l’armatura della speranza, perché lui è profeta di speranza, davanti alle macerie della violenza cieca della malavita.

Tutta la vita di don Pino è racconto di chi si è imbattuto nella via di quella Giustizia che si affaccia dal cielo e ha camminato davanti a Dio e agli uomini con la Verità fatta germogliare sulla terra, con la propria vita (cfr Salmo 84, 12-14).

L’esempio di don Pino è un dono gratuito di amore. È risposta alla chiamata di Dio, nella sua ininterrotta laboriosità come uomo e come prete, come continuatore dell’opera infusa nell’umanità da Dio stesso. Chiunque l’abbia incontrato lo può attestare. I giovani allievi, i fedeli, i parenti, gli amici e tutte le anime che grazie a lui, alla sua parola ferma e dolce hanno ricevuto il balsamo della consolazione. E chi lo ricorda lo fa con le lacrime agli occhi. Perché un santo così non dovrebbe mai passare da questo mondo. Basta rileggere le tante testimonianze per avvertirne il calore, la nostalgia. Il suo insegnamento di vita è rimasto, si è ben radicato nel tessuto siciliano e palermitano in particolare. Per questo mi auguro che il messaggio sia diffuso nelle scuole, negli ambienti dove si decide il futuro del nostro Paese, perché don Puglisi ha tanto da suggerire in materia di lotta a favore dei più indifesi. Non sono i muscoli della corruzione, ma il sorriso di un cuore puro che oggi può e deve conquistare il mondo, dal di dentro. Con uomini che stanno in piedi, saldi nella dignità, che non si piegano ai servigi della delinquenza e non si sporcano con la criminalità.

La radicalità con cui ha dimostrato la limpidezza della sua anima oggi suscita sete e fame di liberazione dal male, dall’oppressione di quanti non vivono l’altro come fratello ma lo eliminano come nemico. Emerge chiarissimo, dalla sua figura, il volto del cristiano, della sua capacità, non solo di discernere, ma anche di porre dei segni nei tempi.

In misura crescente si avverte oggi che a mancare non sono le cose che ci possono rendere felici, quanto piuttosto il desiderio di felicità vera. Ci si imbatte talvolta in surrogati, o come ci sottolinea spesso papa Francesco, «tendiamo più ad accontentarci delle copie, invece che ricercare l’originale». La sfida è tutta qui: il compiersi della storia avviene per autenticità e genuinità, non per contraffazioni o uccisioni. Don Pino ha incarnato quanto credeva. La Parola si è fatta vita. E la vita ha corrisposto alla Parola accolta e annunciata fino a posarsi come un ramoscello d’ulivo ai piedi di quanti ha servito per amore di questa Parola, che lo ha chiamato a cooperare al Regno di Dio.

Di fronte a don Pino impallidisce chiunque finora non abbia preso sul serio la propria missione nel mondo. È lui che scrive ai suoi giovani queste parole nettissime, inequivocabili: «Dobbiamo seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore, ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea. Già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di aver accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».

In don Pino l’impegno a rendere migliore la periferia dimenticata di Palermo, che gli aveva affidato il cardinale Pappalardo, è un desiderium naturale. Nessuno sforzo compie ad amare quella terra di desolazione e di paura, intrisa di mafia, segnata dalla disoccupazione e da mille problemi sociali. Non c’era una scuola media, l’unico quartiere di Palermo a non averla. Non c’erano servizi, né punti di riferimento onesti. C’erano solo tanti cosiddetti uomini d’onore ma che non onoravano di certo né i propri giovani, né riscattavano dalla povertà le famiglie, piuttosto le tenevano soggiogate al terrore. E questo non è onore! Lo ha gridato dall’altare don Pino, non temendo il suo sicario, pronto lì a farlo tacere per sempre.

Quando appresi la notizia della sua uccisione, scrissi sul mio diario, raccolsi lacrime e sdegno, speranze e orizzonti nuovi, nel mistero dell’immolazione. Sentii subito cioè che si trattava di un martire, umile e semplice. Mite, soprattutto, di quella mitezza che sconvolge e abbatte i potenti dai troni. Come per Maria di Nazareth.

Sento che è un modello autentico, per me e per i preti, per ogni cristiano che fa della giustizia, della carità verso gli ultimi il suo pane quotidiano. E, credo, per tutte le Chiese del Sud che non possono fare a meno di guardare a don Pino come a quel fascio di luce che irradia la terra del Sud. Modello, perché ha saputo camminare a testa alta, come spesso mi raccontava suor Carolina Iavazzo, che io accolsi nel 2001, a Bosco Sant’Ippolito, una frazione di Bovalino, ai piedi di san Luca, quando ero vescovo a Locri.

Quella suora, che tanto ha operato con don Pino, ora, lasciato Brancaccio, opera in questa realtà, segnata dalla mafia, con grande zelo e frutto. Attua tutti quegli insegnamenti che aveva appreso dal nostro Beato, in tanti anni. Don Pino infatti ha educato a questo, perché voleva che i suoi ragazzi camminassero così. Non mafiosi, dal collare scintillante, ma ragazzi veri, che frequentavano il Centro Padre Nostro, da lui creato, proprio perché ogni bambino avesse un orizzonte grande come il cielo. Perché solo quel Padre che «è nei cieli» ci permette di camminare senza diventare schiavi della criminalità: né padroni né padrini, ma un solo Padre, quello nei cieli. Per questo, è partito dai bambini, perché con loro si può iniziare un sentiero pulito. A loro ha insegnato le regole del gioco, da quelle del pallone a quelle dei campeggi estivi, tra il verde della Sicilia.

Non si è opposto alla mafia per una scelta volontaristica. Altri lo hanno fatto e facevano rumore. Lui, no. Lui faceva il prete. E lo faceva bene, pregando, annunciando il Vangelo con chiarezza, vivendo in stile di vera povertà, libero dal denaro e dagli schemi di giudizio.

Solo un prete povero e libero poteva gridare e chiamare «bestie» i mafiosi. Li svergognava pubblicamente, per la loro viltà, denunciando le loro opere attuate nel buio, sempre ai danni di qualche fratello. Diceva con chiarezza: «Chi usa la violenza non è un uomo!». La mafia teme le coscienze libere e pure.

Il 9 maggio 1993 si recò in Sicilia, ad Agrigento, Giovanni Paolo ii. Nel chiudere il suo discorso nella Valle dei Templi, battendo con forza il pastorale, affermava con tono d’anatema: «Dopo tante sofferenze, avete diritto di vivere nella pace. I colpevoli, la minoranza, che portano sulle loro coscienze tante vittime umane debbono capire che non si permette di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Qui ci vuole una civiltà della vita». E aggiunge, con parole profetiche, impresse nel cuore di tutti noi: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Verrà un giorno il giudizio di Dio!».

Padre Puglisi ascoltò in parrocchia quelle parole. E lì in quel momento lui sentì che erano per il suo quartiere, per la sua gente. Ma soprattutto per lui. Nonostante tutto, continua a credere nella conversione dei mafiosi. Sente che sono cattivi soprattutto perché soli, rintanati in una logica di morte. Li vuole anch’essi liberi. Dalla paura, dalla violenza, dalla morte. È morto per questo. Col desiderio ardente che ogni uomo conoscesse Cristo e si lasciasse amare da Lui e ripulire dalle seduzioni del male, per correre tra le valli del Bene, dove la fiaccola della vera vita non si spegne mai. Proprio lì dove ora don Pino dimora intercedendo per la conversione di quanti ancora impugnano le armi dell’odio e si impediscono di essere uomini tra gli uomini. Ponendosi al seguito della Verità del Vangelo, don Pino si è donato al cuore di Dio e al cuore dei propri fratelli, con la stessa intensità e fedeltà.

Nel dibattuto tema della giustizia sociale, l’urgenza è quella di creare posti di lavoro, pulito e dignitoso per tutti i nostri giovani. Solo partendo da qui, capiremo che abbracciare l’altro e impegnarci per il suo bene non è mai una sconfitta, ma la più grande vittoria sulle divisioni, sugli sfruttamenti e le malvivenze. Il cambiamento allora avrà la sua casa, la sua fioritura di riscatto per tutti.

di Giancarlo Bregantini

venerdì 14 settembre 2018

Osservatore Romano:​ Materia che salva · Nella festa dell’Esaltazione della croce ·

Da bambini, metter le mani nella terra aveva un fascino irresistibile. Sporcarsi e scavare, rompere la crosta dura del mondo, vedere che cosa c’è sotto, provare la consistenza di ciò che ci sostiene.

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo (Matteo 13, 44). Quello che Gesù descrive non è più un gioco da bambini, eppure la gioia della sorpresa è la stessa. Il contadino ne è pieno, forse perché l’esperienza l’ha istruito: non c’è nulla di automatico nel trovare un tesoro. Crescere non comporta forse un disincanto? Semmai, il fatto che Gesù osservasse e accogliesse i più piccoli — e non solo contadini, pastori, pescatori, seminatori, donne di casa, giudici, rabbini o mercanti — dice qualcosa del regno di Dio. Così funzionano le parabole: irrompe nella vita degli ascoltatori l’inconsueto. All’adulto vacilla il mondo che credeva di dominare, come se tutto fosse da imparare da capo. Qualcuno non può tollerarlo e se ne va: ucciderebbe volentieri il provocatore. Chi non è rigido invece rimane, fiutando piuttosto l’affare e il fascino di un’innocenza ritrovata. C’è da stupirsi ancora.

Il 14 settembre dell’anno 320, a Gerusalemme veniva presentata ai fedeli “la vera croce” del Signore e cinque anni dopo, nello stesso giorno, si inaugurava la basilica del Santo Sepolcro. Appena avuta la libertà di vivere da cristiani pubblicamente — l’editto di Costantino è solo del 313 — nella città santa si iniziò dunque a scavare. La tradizione indica Flavia Giulia Elena, madre dell’imperatore, come la vera anima di quelle ricerche, per cui da allora, ogni 14 settembre, i cristiani celebrano il trionfo della croce. Fede che, evidentemente, non induce solo a guardare il cielo: volge invece di nuovo alla terra. Essa è tutt’altro che vuota, diversa da come il contadino si è abituato a vederla. L’archeologo non la rivolta allo stesso modo. Ai bambini è dunque concesso come un presentimento di ciò che la realtà tutta ci riserva.

Scavare. Si può vivere consumando notizie, incontri, responsabilità, piaceri, dolori — uno dopo l’altro — senza venirne modificati. Se colpiti nel cuore da ciò che riguarda Gesù Cristo, invece, la superficialità è interrotta.

Inutile nascondersi che, trattando del Regno, il Maestro parlasse anche di sé. Il mistero della sua identità scatena una curiosità raffinatissima, riappassiona alle cose della vita, infonde la certezza che sotto il sole esiste qualcosa di nuovo. La Bibbia aveva ospitato la voce di chi si rassegna al contrario: c’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Ecco, questa è una novità»? (Qoelet 1, 10); ma allora quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (Qoelet 1, 3-4).

«Fare esperienza di qualcosa — ha scritto Martin Heidegger nel secolo scorso — si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio, significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma».

Scavare diventa un’esigenza: là dove procedevamo sicuri, nel suolo che ogni giorno calpestiamo, si nasconde il mistero che tutto riscatta. Sant’Elena suggerisce che come all’archeologo è naturale procedere meticoloso, paziente, umile, determinato, così al cristiano è di vitale necessità impegnare schiena, mani, occhi, attenzione — ogni energia — per rinvenire nella sua terra le tracce del Dio vicino.

Alla precedente citazione si accosta allora senza forzature una convinzione di Simone Weil: «Se con vera attenzione si cerca di risolvere un problema di geometria e in capo a un’ora si è al punto di partenza, in ogni minuto di quell’ora si è comunque compiuto un progresso in un’altra dimensione, più misteriosa. Senza che lo si avverta o lo si sappia, quello sforzo in apparenza sterile e infruttuoso ha portato più luce nell’anima. Un giorno se ne ritroverà il frutto nella preghiera. E forse lo si ritroverà anche in un qualsiasi ambito dell’intelligenza, magari del tutto estraneo alla matematica».

«Adorare», insegnava Benedetto xvi ai giovani, in latino «significa portare alla bocca, baciare»; in greco «si usa un’espressione che richiama il prostrarsi a terra, confessando così col corpo un senso di autentica sproporzione». Segni fisici che, come spesso accade, dicono più di qualsiasi parola. Ebbene, da secoli la croce ritrovata è, soprattutto, croce adorata: legno da toccare, reliquia da venerare, materia che salva. Essa infatti è documento della Passione: parola che significa contemporaneamente amore e sacrificio, libertà e offerta di sé.

Teodoreto di Ciro, morto intorno al 457, riferendo una versione dei fatti di Gerusalemme divenuta comune, documenta questa originaria sensibilità: «Quando la tomba, che era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del Signore. Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui. Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue. Ma il saggio e santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera. Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente».

Trattare narrazioni simili con senso di superiorità è per noi una naturale tentazione. Per secoli i cristiani ebbero nelle reliquie, specie dei martiri, i più grandi tesori. Certo, l’intelligenza richiede che ci si guardi dalla superstizione, si denunci l’idolatria, non si sconfini nella magia, ma non è segno di emancipazione il vivere di sola mente, come uscendo da un corpo che con tutta la carica dei sensi vuole incontrare la verità.

Adorare la croce è avere più che un’opinione su Dio: significa abbracciare l’umanità del Salvatore, tenerla presso di sé, aderirvi con ogni fibra del proprio essere. Un amore fisico perché umano, reale, coinvolgente. Esso predispone ad abbracciare la fisicità del fratello, a vedere, baciare, servire Cristo nel povero. Così fu, ad esempio, per san Francesco: «Felice di questa rivelazione e divenuto forte nel Signore, mentre un giorno calcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo; ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio».

di Sergio Massironi

giovedì 13 settembre 2018

Settimana news: Come servire il rinnovamento della Chiesa?

Il papa ha detto che preferiva non commentare per parte sua le dichiarazioni che recentemente hanno suscitato tanta eco nella Chiesa e nell’opinione pubblica, ma non ha proibito agli altri di fare responsabilmente le proprie riflessioni. Perciò ho pensato giusto dire qualche parola.
Ho visto diverse situazioni e campagne simili in passato e penso che se ne vedranno ancora molte negli anni futuri. Del resto, non mi risulta che ci siano stati tempi del tutto tranquilli nella storia della Chiesa, come non ci sono stati nella stessa vita di Gesù. Tensioni, discussioni, confusioni, attacchi ci accompagneranno sempre in questo mondo.
La rete della confusione
La novità sta forse nella globalizzazione della confusione e degli strumenti per diffonderla, ma questa è una ragione di più per vivere la propria fede chiedendo fortezza e pazienza, e per esercitare la propria coscienza, intelligenza e prudenza nel cammino della carità e della verità. Un impegno in più, non facile certo, ma è quello che oggi ci è chiesto senza lasciarci imprigionare da alcuna paura o timidezza.
Sono anche convinto che lo Spirito promesso da Gesù continuerà a servirsi dei successori di Pietro – in concreto dei papi –, nonostante i limiti che tutti inevitabilmente hanno avuto e avranno anche in futuro; e che la prima «riforma» davvero necessaria e sempre in corso è quella che comincia da noi stessi per lasciarci guidare dal Vangelo e da questo Spirito.
Per quanto riguarda l’ondata di discussioni e attacchi di questi giorni, è così ampia che ovviamente non sono competente per rispondere a tutto e penso che nessuno se lo aspetti da me. In particolare, sono stato sorpreso e sconcertato anche io dalla gravità della vicenda del card. McCarrick, e ritengo bene che sia stata finalmente conclusa con la sua destituzione dal Collegio cardinalizio; ma non sono in grado di aggiungere considerazioni sulla vicenda e sugli approfondimenti ancora da fare.
L’autorità meritata
Voglio invece dire qualche cosa sul contesto eccezionalmente ampio di problemi e accuse che sono stati evocati, perché mi pare che proprio tale ampiezza abbia un effetto grave di confusione e senso di insicurezza.
Osservo dunque anzitutto che per presentarsi come giudici e moralizzatori della comunità della Chiesa occorre non solo l’integrità delle intenzioni (che non mi sento di negare a priori a nessuno), ma anche un’autorità morale appoggiata su una provata capacità di curare il bene comune attirando fiducia e rispetto.
Per questo è necessario saper correggere se necessario, ma poi anche costruire insieme con gli altri e condurli su un cammino di miglioramento e non di guerra degli uni contro gli altri, a cominciare dalla comunità familiare, per passare poi ai diversi livelli di responsabilità nelle istituzioni o nella comunità. Insomma: non solo creare divisioni, ma saper condurre a superarle. Non ritengo che S.E. mons. Viganò si sia guadagnato questa autorità.
Se per il bene comune e delle persone si è ricevuto (e si è responsabilmente accettato) un ufficio che comporta disporre di informazioni riservate sulle persone, tale «potere» deve essere usato nella misura in cui è necessario per provvedere per il bene e non per diffondere un clima di sospetto e minaccia generalizzato, in diversi casi realmente ingiustificato, che distrugge il bene comune invece di favorirlo. Nel nostro caso si è andati al di là del dovuto.
Alla luce di un buon numero di anni di esperienza di rapporti nella Curia Romana, voglio testimoniare che – nonostante diversi limiti – la valutazione generale che queste discussioni inducono è gravemente ingiusta nei confronti del grande numero di persone integre e dedicate che vi lavorano, animate da un sincero spirito di fede cristiana e di amore alla Chiesa. Anche questo genere di valutazioni è un’ingiustizia.
Vissuti credibili
Per quanto riguarda gli abusi sessuali (e di potere e di coscienza, come giustamente insiste sempre più spesso papa Francesco), sono fermamente convinto che sia una questione che, oltre ai doverosi interventi normativi e disciplinari – su cui c’è ancora sempre molto da fare, in particolare in diverse aree geografiche e culturali –, deve coinvolgere a livello profondo la vita personale di ognuno di noi, richiedendo un forte e continuo rinnovamento spirituale, un vero cammino di «castità» e dignità nella vita affettiva e sessuale secondo i diversi stati di vita e di impegno.
Solo il risplendere credibile di esempi diffusi, non unicamente di maturità e di rispetto ma anche di santità in questa dimensione della vita umana (affettività e sessualità), potrà aiutare la Chiesa a ricuperare l’autorevolezza morale che il popolo si attende affinché essa svolga bene la sua missione in un clima e in una cultura pesantemente negativi da questo punto di vista.
In questo senso non penso che la via giusta sia quella di vedere gli abusi sessuali principalmente come conseguenza dell’omosessualità, né di vedere reti e lobby omosessuali ramificate dappertutto come origine principale dei mali. Anche Benedetto XVI, pur notoriamente e criticamente attento al problema dell’omosessualità nel clero, e che conosceva il risultato delle indagini della Commissione «dei tre cardinali», aveva molto relativizzato il presunto peso della «lobby omosessuale» nella Curia Romana – come appariva dalla sua risposta a una specifica domanda di P. Seewald al termine delle Ultime conversazioni.
Il governo delle complessità
Infine, in base alla mia esperienza della Compagnia di Gesù (che è certo più ampia di quella di tutti i critici che stanno parlando, dato che sono gesuita da 58 anni, ho partecipato a quattro Congregazioni Generali, sono stato provinciale della Provincia più numerosa dell’Ordine e assistente del  Padre Generale), ritengo che – pur riconoscendo la presenza di errori e peccati anche gravi fra le diverse migliaia di miei confratelli – il parlare dell’«ala deviata dell’Ordine» manifesti chiaramente una visione parziale della nostra storia e realtà, con la tendenza a classificare e dividere, piuttosto che a comprendere e governare le tensioni e le dinamiche di un corpo vario e complesso (questa visione parziale e divisiva viene applicata anche alla Chiesa intera).
A proposito di una Compagnia di Gesù certamente «non deviata», osservo che una lettura – pur debitamente attualizzata – delle «regole per sentire nella Chiesa», date da Sant’Ignazio di Loyola al termine del lungo cammino degli Esercizi Spirituali, non lascia dubbi che lo spirito che si manifesta nell’ondata di critiche che è stata scatenata non è certo segno di un genuino «sentire nella Chiesa».
La parola che unisce
In conclusione, non posso vedere in alcun modo come positivo e costruttivo ciò che è apparso come un’operazione preparata e organizzata per diffondere il più largamente possibile una serie davvero troppo grande di accuse, di valutazioni negative, di sospetti, che non possono che disorientare le persone che non hanno i mezzi per valutare, criticare e difendersi da un’ondata che ottiene di fatto il risultato di minare la loro fiducia nella Chiesa e nella sua guida.
Si divide e basta – e non si mette in campo alcun elemento per preparare un’unione a un livello superiore. Ho sempre pensato che la parola e la comunicazione, non solo nella Chiesa ma anche nella comunità umana, pur con consapevolezza critica, debbano mirare sempre al fine ultimo della comprensione reciproca e della comunione. Non a Babele, ma a Pentecoste.
P. Federico Lombardi, 10 settembre 2018

mercoledì 12 settembre 2018

La Stampa. Vatican Insider. Ogni uomo che incontro è il dono di cui ho davvero bisogno

L’accoglienza scarsa o banalizzata, il poco dare spazio, possono essere aspetti che la conversione orienta in tanti casi a superare.

GIAMPAOLO CENTOFANTI
ROMA

Gesù non ha scritto, anche perché lui parlava a quelle particolari persone, in quelle particolari situazioni. Allo stesso modo il suo Vangelo avrebbero cercato di comunicarlo i suoi inviati. Dunque ognuno ha il suo personalissimo cammino, con le sue tappe e via dicendo. I seguenti possibili stimoli spirituali per pastori, per laici di lungo cammino, possono venire accolti con cuore tendenzialmente semplice e sereno, aperto, lasciando che maturino a suo tempo, in modo autentico, proprio, durante la strada. 



Gesù ha detto che molte cose aveva ancora da manifestarci (all’interno di una rivelazione essenzialmente piena già comunicata), lo Spirito ce le avrebbe mostrate nel tempo, sempre più profondamente riportandoci a Cristo stesso, ai Vangeli. Ciò significa, in un graduale percorso, mettere in discussione in Gesù ogni cosa, fin dalle impostazioni fondamentali del nostro vivere, discernere e persino il “nostro” Figlio di Dio. Cresce in noi, lungo la conversione, la preghiera del cieco dei Vangeli: «Fa che io veda», anche aprendo - con stupore - varchi non immaginati nel nostro cuore, che può inconsapevolmente circoscrivere lo stesso nuovo venire del Signore. Per esempio con un’attesa spiritualistica, che intuisce poco la possibilità di una grazia a misura, come una colomba, che rinnovi profondamente la vita, la cultura cristiana, la pastorale, a tutto campo. Si può accendere una grande speranza anche comunitaria nel sempre nuovo, a suo modo potente, donarsi di Dio. 



Cristo viene anche attraverso l’universo. In mille modi, per esempio con le loro difficoltà davanti al mio annuncio, le persone mi possono segnalare che ho qualcosa da cogliere, in cui crescere. Maturo nell’imparare da ciascuno in tante sfumature, non in riduttivi concetti astratti. Ogni uomo che incontro in Cristo è, in vario modo, il dono di cui ho davvero bisogno. Ogni rapporto è personalissimo, vi entro sempre più, specie dal vivo: non vi sono risposte prefabbricate, riduttivi calcoli logici, la vita, anche quella mia e di chi ho davanti, va oltre. Cerco di entrare sempre più in sintonia, nello Spirito di Cristo, Dio e uomo. 



Lo Spirito sereno, a misura, porta con delicatezza tutta la mia umanità, non una ragione astratta, non un’anima disincarnata, nel mistero. Tutta la mia umanità, la mia mentalità, viene continuamente rinnovata. Si aprono nuovi orizzonti a tutto campo. È uno Spirito, un Amore, desiderabile anche perché, così divino e così umano, scioglie sempre più i nodi del mio cuore, della mia psicologia, di tutto il mio essere.  



Mentre in una spiritualità ancora variamente prefabbricata si potevano spesso vivere intuizioni innovative appunto spirituali, ora che tutta l’umanità dell’uomo può venire delicatamente, autenticamente, condotta nella vita potrebbe più facilmente accadere che un piccolo contribuisca a rinnovare, nell’essenza, tutta la cultura, anche la comprensione della dottrina. Accoglierlo non solo con amore totale ma anche pronti a sorprese spiazzanti. Una disposizione di questo genere è una grazia talora molto rara. Ed apre a possibilità infinite di rinnovamento. Infatti, in una mancata o in una riduttiva accoglienza si possono alimentare tanti schemi, paletti, non solo personali ma della mentalità, della cultura, correnti. E anche cause profonde del prevalere dei potenti, che in un modo o nell’altro molto si basano sul divide et impera. Sulla individualizzazione, la massificazione delle persone. 



Dunque la scarsa accoglienza, l’accoglienza banalizzata, il poco dare spazio, possono essere aspetti che la conversione orienta in tanti casi a superare. Anzi la sete della luce come fonte di vita nuova ci può orientare ad una profonda ricerca, con le antenne tesissime. Anche imparo a non vivere necessariamente la diversità come conflitto ma sotto molti aspetti come ricchezza. 



Questo cammino del cuore integrale nella luce serena, a misura, mi orienta ad accogliere tutta la persona, i suoi bisogni spirituali e umani. E la persona solo così si può più naturalmente sentire amata, capita, per davvero. Mi accorgo che la conversione non di rado mi fa superare artefatti riduzionismi in competenze, ruoli, burocrazie, che scindono in astrazioni la viva umanità dello specifico essere umano. Il razionalismo classifica, calcola, viviseziona; un più autentico discernimento cerca una sempre più profonda sintonia dal vivo.  



L’intellettualismo dunque vive di fasulle certezze, di compiti prefabbricati, mentre il discernimento entra nei chiaroscuri del mistero spirituale e umano, saggiamente rischia. In questo cammino si può sviluppare il dono di un ascolto sempre più attento, profondo, integrale. Non solo razionalistico, non solo spiritualistico. Una consapevolezza del cuore, della coscienza spirituale e psicofisica cioè, che abilita a leggere sempre più profondamente nella vita anche dell’altro. 



L’autentica comunicazione può avvenire maturando nello Spirito di Gesù, Dio e uomo. Dunque non cadendo per esempio nell’inganno di passare dalle astratte teorie ad un mero pragmatismo dell’incontro. Si cresce, si costruisce, insieme ma cercando gli adeguati tempi e modi dello Spirito e non con un riduttivo fare. Anche talora pericoloso perché l’uomo che opera il bene puntando su sé stesso costruisce la torre di Babele. Conta stare col cuore in Cristo, non il formalismo dell’agire. 



Gesù ha chiamato a sé gli apostoli e solo gradualmente li ha poi anche inviati. Le risposte autentiche si maturano nella preghiera, nel tempo. Anche scoprendo sempre più approfonditamente, nel cammino stesso della Chiesa, le fonti, le vie, della grazia. La società attuale svuota talora di una ricerca personale e nello scambio, riduce tante cose ad astratti concetti, a risposte da tavolino, immediate. Tende dunque, tra l’altro, a negare la storia, il tempo. Mentre è in essi che si possono maturare le scelte adeguate alle situazioni reali. Nella pace dell’abbandono si maturano discernimenti di pace, che vengono dal cielo e dalla terra. 



E il tempo è anche saggezza del precario, del limite. Scopriamo un Dio buono che cerca di darci il meglio possibile anche umanamente all’interno di uno sguardo integrale. Vi sono doni che mi piacerebbero da un lato ma che potrei scoprire con controindicazioni non indifferenti da un altro. Imparo a non confrontarmi con un astratto benessere dove tutto rientra nei miei schemi. Credo che il Signore vuole darmi ogni bene all’interno di ciò che non finirebbe per peggiorare la mia situazione. Non mi induce in inutili prove e comprende dunque il senso positivo delle mie preghiere. Chiudo allora gli occhi e mi abbandono al suo amore buono, molto più attento di me al mio benessere anche umano, materiale. Tendo dunque ad accontentarmi dei doni più “terreni” ricevuti accettando qualche limite, evitando il quale potrei però incontrare limiti peggiori e meno a misura della mia vita. E dirigo verso l’unico che può realmente darmela, Dio, la mia aspirazione alla felicità. Che così non finisco per seppellire sotto una montagna di delusioni e di frustrazioni.  



Credo, intuisco, sempre più che Gesù ama molto più e molto meglio di me, anche della Chiesa, per cui vissutamente cerco il suo autentico, divino e umano, donarsi, discernere. Pronto a scoprire suoi atteggiamenti, suoi orientamenti, che erano lì da sempre ma che le risposte prefabbricate potevano contribuire ad impedire di vedere. Il suo amare, aiutare, senza limiti né condizioni, se non quello della discrezione, del delicato rispetto verso ciascuno. Ma tutto maturo nella Chiesa. 



Questo amore autentico mi conduce ad essere discretamente vicino, con tutto il cuore, con ogni attenzione, ad ogni specifica persona. Ma in questa nostra difficile epoca mi insegna anche una delicata prudenza, in modo che a nessuna eventuale malignità, cattiveria, circa azioni indebite possa venir dato credito. E su questa scia imparo che l’assoluta povertà non solo può essere un grande dono ma anche un’altra grande protezione dall’accusatore. Non finisco di imparare da ogni uomo. Sono attento, prego, per il dono di un padre spirituale, anche cercandolo in ascolto del tempo. Imparo l’armonia dei contributi, delle risposte: non solo non vivo, non cresco, non agisco, senza Dio ma, in vario modo, neanche senza gli altri. 

martedì 11 settembre 2018

Il sole 24 ore: Intervista a Papa Francesco: «I soldi non si fanno con i soldi ma con il lavoro»

Santità, un antico proverbio africano sostiene: “Se vuoi andare veloce vai solo, ma se vuoi andare lontano vai insieme”. Tutti noi sappiamo quanto si può correre velocemente, grazie ai nuovi strumenti dell'innovazione tecnologica, nella comunicazione – anche tra le persone - e nell'economia. Ma le crisi profonde che si sono succedute, assieme ad una perdurante e dilagante incertezza, sembrano averci tagliato e oscurato gli orizzonti. In Gran Bretagna, addirittura, è nato un ministero che si occupa della “solitudine”. Farebbe suo quel proverbio? 
Questo proverbio esprime una verità; il singolo può essere bravo, ma la crescita è sempre il risultato dell'impegno di ciascuno per il bene della comunità. Infatti le capacità individuali non possono esprimersi al di fuori di un ambiente comunitario favorevole, dal momento che non si può pensare che il risultato raggiunto sia semplicemente la somma delle singole capacità. Dico questo non per mortificare i singoli o per non riconoscere i talenti di ciascuno, ma per aiutarci a non dimenticare che nessuno può vivere isolato o indipendente dagli altri. La vita sociale non è costituita dalla somma delle individualità, ma dalla crescita di un popolo.
Come si riesce ad essere “inclusivi”? 
Vedere l'umanità come un'unica famiglia è il primo modo per essere inclusivi. Noi siamo chiamati a vivere insieme e a fare spazio per accogliere la collaborazione di tutti. Se ci guardiamo attorno con il cuore aperto non ci sfuggono le tante, le tantissime e preziose storie di sostegno, vicinanza, attenzione, di gesti di gratuità, toccando con mano che la solidarietà si estende sempre più. Se la comunità in cui viviamo è la nostra famiglia, diventa più semplice evitare la competizione per abbracciare l'aiuto reciproco. Come succede nelle nostre famiglie di appartenenza, dove la crescita vera, quella che non crea esclusi e scarti, è il risultato di relazioni sostenute dalla tenerezza e dalla misericordia, non dalla smania di successo e dalla esclusione strategica di chi ci vive accanto. La scienza, la tecnica, il progresso tecnologico possono rendere più veloci le azioni, ma il cuore è esclusiva della persona per immettere un supplemento di amore nelle relazioni e nelle istituzioni.
Non avere un progetto condiviso sulle riduzione delle diseguaglianze in un sistema sempre più globalizzato può determinare quella che Lei chiama “l'economia dello scarto”, dove le stesse persone diventano “scarti”. Nell'ultimo documento (“Oeconomicae et pecuniariae quaestiones – Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell'attuale sistema economico”) la Santa Sede afferma che l'economia “ha bisogno per il suo corretto funzionamento di un'etica amica della persona”. Ci può spiegare questo punto? 
Innanzitutto una precisazione sull'idea degli scarti. Come ho scritto nell'Evangelii Gaudium: non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l'azione dell'esclusione colpiamo, nella sua stessa radice, i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo, dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell'esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì siamo sbattuti fuori. Chi viene escluso, non è sfruttato ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori dalla società. Non possiamo ignorare che una economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l'obiettivo primario e unico siamo al di fuori dell'etica e si costruiscono strutture di povertà, schiavitù e di scarti.
Vuol dire che siamo in un contesto valoriale nemico della persona? 
Abbiamo un'etica non amica della persona quando, quasi con indifferenza, non siamo capaci di porgere l'orecchio e di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non versiamo lacrime di fronte ai drammi che consumano la vita dei nostri fratelli né ci prendiamo cura di loro, come se non fosse anche responsabilità nostra, fuori dalle nostre competenze. Un'etica amica della persona diventa un forte stimolo per la conversione. Abbiamo bisogno di conversione. Manca la coscienza di un'origine comune, di una appartenenza a una radice comune di umanità e di un futuro da costruire insieme. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Un'etica amica della persona tende al superamento della distinzione rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all'esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore. Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità economica e sociale delle forme storiche e consolidate di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione delle responsabilità da parte dei soggetti economici. Infatti, è la stessa diversità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.
Nello stesso documento in cui è esplicito il messaggio perché l'attività finanziaria sia al servizio dell'economia reale, e non viceversa, colpisce l'appello alle scuole dove si formano i manager e i capitani d'industria del futuro, affinché ci si renda conto che i modelli economici che perseguono solo dei risultati quantitativi non saranno in grado di mantenere nel tempo sviluppo e pace. Significa che i manager dovrebbero essere formati, e poi giudicati, anche sulla base di parametri diversi da quelli attuali? Quali? 
Mi sembra importante osservare che nessuna attività procede casualmente o autonomamente. Dietro ogni attività c'è una persona umana. Essa può rimanere anonima, ma non esiste attività che non abbia origine dall'uomo. L'attuale centralità dell'attività finanziaria rispetto all'economia reale non è casuale: dietro a ciò c'è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. E' il lavoro che conferisce la dignità all'uomo non il denaro. La disoccupazione che interessa diversi Paesi europei è la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro. E aggiungo, pensando ai lavoratori incontrati in Sardegna: la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulla cenere, la speranza, che non è semplice ottimismo, ci porta avanti, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, è cosa di tutti, per questo dico spesso anche ai giovani non lasciatevi rubare la speranza. Dobbiamo anche essere furbi, perché il Signore ci fa capire che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba.
Furbizia e bontà per lottare contro l'idolo-denaro? Come si fa? 
In questo momento nel nostro sistema economico al centro c'è un idolo e questo non va bene: lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano piuttosto la famiglia e le persone, e si possa andare avanti senza perdere la speranza. La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l'inserimento dell'azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell'ambiente, il riconoscimento dell'importanza dell'uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitaria di un'azienda. Perseguire uno sviluppo integrale chiede l'attenzione ai temi che ho appena elencato. 
Cosa fa bene all'azienda? 
Il modo di pensare l'azienda incide fortemente sulle scelte organizzative, produttive e distributive. Si può dire che agire bene rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all'azienda. C'è sempre una correlazione tra azione dell'uomo e impresa, azione dell'uomo e futuro di un'impresa. Mi viene in mentre il Beato Paolo VI che avrò la gioia di proclamare santo il prossimo 14 ottobre, che nell'enciclica Populorum progressio scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo. Com'è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere l'umanità intera”».
Il recente documento vaticano di analisi sul sistema economico cui ho già fatto riferimento osserva, soprattutto, come “quel potente propulsore dell'economia che sono i mercati non è in grado di regolarsi da sé: infatti essi non sanno né produrre quei presupposti che ne consentono il regolare svolgimento (coesione sociale, onesta, fiducia, sicurezza, leggi…) né correggere quegli effetti e quelle esternalità che risultano nocivi alla società umana (diseguaglianze, asimmetrie, degrado ambientale, insicurezza sociale, frodi…)”. Vuol dire che l'economia non può bastare a se stessa e ha in qualche modo bisogno di essere essa stessa “salvata”? Quali sono, a Suo giudizio, i “giusti”, limiti del profitto? 
L'attività economica non riguarda solo il profitto ma comprende relazioni e significati. Il mondo economico, se non viene ridotto a pura questione tecnica, contiene non solo la conoscenza del come (rappresentato dalle competenze) ma anche del perché (rappresentata dai significati). Una sana economia pertanto non è mai slegata dal significato di ciò che si produce e l'agire economico è sempre anche un fatto etico. Tenere unite azioni e responsabilità, giustizia e profitto, produzione di ricchezza e la sua ridistribuzione, operatività e rispetto dell'ambiente diventano elementi che nel tempo garantiscono la vita dell'azienda. Da questo punto di vista il significato dell'azienda si allarga e fa comprendere che il solo perseguimento del profitto non garantisce più la vita dell'azienda. Oltre a queste questioni legate più direttamente all'azienda, dobbiamo lasciarci interpellare da ciò che sta intorno a noi. Non è più possibile che gli operatori economici non ascoltino il grido dei poveri. Ancora Paolo VI, - e voglio qui citarlo integralmente per la sua importanza - affermava nella Populorum progressio che «la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano “liberamente” sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa. L'insegnamento di Leone XIII nella Rerum novarum mantiene la sua validità: il consenso delle parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguaglianza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale. Ciò che era vero rispetto al giusto salario individuale - ha scritto ancora il mio venerato Predecessore Paolo VI - lo è anche rispetto ai contratti internazionali: una economia di scambio non può più poggiare esclusivamente sulla legge della libera concorrenza, anch'essa troppo spesso generatrice di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alle esigenze della giustizia sociale”».
Il “Sole 24 Ore” – come Radio 24 e l'Agenzia Radiocor Plus- è il quotidiano della Confindustria, cioè l'organizzazione degli imprenditori italiani che rappresenta 160 mila aziende, in grande maggioranza piccole e medie. Gli industriali italiani si battono per una società aperta e inclusiva. Cosa è necessario, a Suo giudizio, perché un imprenditore sia un “creatore” di valore per la sua azienda e per gli altri, a partire dalla comunità in cui vive e lavora? Dalla lettura dei Vangeli emerge peraltro che Gesù mostra grande simpatia (si pensi alla parabola dei cinque talenti) per gli imprenditori che si assumono un rischio. 
Ricordo l'incontro che nel febbraio del 2016 ho avuto con l'Associazione. Ricordo tanti volti dietro ai quali c'erano passione e progetti, fatica e genialità; dicevo che ritengo molto importante l'attenzione alla persona concreta che significa dare a ciascuno il suo, strappando madri e padri di famiglia dall'angoscia di non poter dare un futuro e nemmeno un presente ai propri figli. Significa saper dirigere, ma anche saper ascoltare, condividendo con umiltà e fiducia progetti e idee. Significa fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei altra speranza, soprattutto per le giovani generazioni, che oggi ne hanno più che mai bisogno. Credo sia importante lavorare insieme per costruire il bene comune ed un nuovo umanesimo del lavoro, promuovere un lavoro rispettoso della dignità della persona che non guarda solo al profitto o alle esigenze produttive ma promuove una vita degna sapendo che il bene delle persone e il bene dell'azienda vanno di pari passo. Aiutiamoci a sviluppare la solidarietà ed a realizzare un nuovo ordine economico che non generi più scarti arricchendo l'agire economico con l'attenzione ai poveri e alla diminuzione delle disuguaglianze. Abbiamo bisogno di coraggio e di geniale creatività.
Il lavoro, che pure quando manca è un'intollerabile emergenza, personale e sociale, è spesso percepito come una sorta di condanna quotidiana, una routine insopportabile. Può indicarci, ad esempio, due ragioni perché non lo è, o almeno non lo deve essere, e i modi in cui le imprese si possono adoperare per far sì che non lo sia, con ciò stesso contribuendo anche al successo delle aziende stesse e alla prosperità della società? 
L'idea che il lavoro sia solo fatica è abbastanza diffusa, ma tutti esperimentano che non avere un lavoro è molto peggio di lavorare. Quante volte ho raccolto lacrime di disperazione di padri e madri che non hanno più un lavoro! Lavorare fa bene perché è legato alla dignità della persona, alla sua capacità di assumere responsabilità per se e per altri. E' meglio lavorare che vivere nell'ozio. Il lavoro dà soddisfazione, crea le condizioni per la progettualità personale. Guadagnarsi il pane è un sano motivo di orgoglio; certamente comporta anche fatica ma ci aiuta a conservare un sano senso della realtà ed educa ad affrontare la vita. La persona che mantiene se stessa e la sua famiglia con il proprio lavoro sviluppa la sua dignità; il lavoro crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano. Inoltre lavorare ha un alto significato spirituale in quanto è il modo con il quale noi diamo continuità alla creazione rispettandola e prendendocene cura.
Quale apporto Lei chiede alle imprese? 
Le imprese possono dare un forte contributo affinché il lavoro conservi la sua dignità riconoscendo che l'uomo è la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri. So che in molte aziende si dà un giusto spazio alla formazione. Sono convinto che gioverebbe molto ad un'azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidarietà, etica, giustizia, dignità, sostenibilità, significati sono contenuti che arricchiscono il pensiero e la capacità operativa.
Il mondo globalizzato si è fatto in qualche modo piccolo, ormai abbiamo raggiunto i limiti di quella che Lei chiama la nostra casa comune, cioè il pianeta Terra, tanto che si progetta di colonizzare nuovi pianeti. L'ecologia e un mondo sostenibile sono una Sua grande preoccupazione e gli stessi grandi player internazionali dell'energia, a partire dell'italiano Eni, hanno annunciato le loro svolte “verdi”. Ritiene che su questo punto si stia facendo abbastanza? 
C'è ancora molto da fare per ridurre comportamenti e scelte che non rispettano l'ambiente e la terra. Stiamo pagando il prezzo di uno sfruttamento della terra che dura da molti anni. Anche oggi, purtroppo, in tante situazioni, l'uomo non è il custode della terra ma un tiranno sfruttatore. Ci sono però segnali di nuove attenzioni verso l'ambiente; è una mentalità che gradatamente viene condivisa da un numero sempre maggiore di Paesi. E' un percorso che ha bisogno di una cura particolare perché è necessario passare da una descrizione dei sintomi, al riconoscimento della radice umana della crisi ecologica, dall'attenzione all'ambiente ad una ecologia integrale, da un'idea di onnipotenza alla consapevolezza della limitatezza delle risorse. Il punto nodale è che parlare di ambiente significa sempre anche parlare dell'uomo: degrado ambientale e degrado umano vanno di pari passi. Anzi le conseguenze della violazione del creato sono spesso fatte pagare solo ai poveri. Lo sviluppo della dimensione ecologica ha bisogno della convergenza di più azioni: politica, culturale, sociale, produttiva. In particolare la formazione di una nuova coscienza ecologica ha bisogno di nuovi stili di vita per costruire un futuro armonico, promuovere uno sviluppo integrale, ridurre le disuguaglianze, scoprire il legame tra le creature, abbandonare il consumismo.
Vuol dire che c'è bisogno di cambiare modello di produzione? 
Come scrivevo nell'enciclica Laudato si' questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura. Pensiamo, ad esempio, al nostro sistema industriale, che alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l'uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l'efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero. Dobbiamo ammettere che in questa direzione il lavoro da fare rimane ancora molto. 
Tra gli “scartati” della Terra ci sono i migranti che si spostano da un continente all'altro in fuga dalle guerre o in cerca di condizioni per vivere o sopravvivere. Lei, in un periodo storico che vede le frontiere (anche quelle commerciali) chiudersi e prevalere i nazionalismi in un'Europa stanca e divisa, non si sente un po' come un Mosè contemporaneo che apre il passaggio, apre le porte per tutti i popoli e le persone, a cominciare dai più poveri? C'è chi pensa che questa non sia comunque la missione di successore di Pietro. Perché, invece, ritiene che lo sia? E di cosa ha bisogno questa Europa per ritrovare una rotta comune e insieme per rispondere alle paure dei suoi cittadini? 
I migranti rappresentano oggi una grande sfida per tutti. I poveri che si muovono fanno paura specialmente ai popoli che vivono nel benessere. Eppure non esiste futuro pacifico per l'umanità se non nell'accoglienza della diversità, nella solidarietà, nel pensare all'umanità come una sola famiglia. E' naturale per un cristiano riconoscere in ogni persona Gesù. Cristo stesso ci chiede di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia ben aperte, magari aderendo all'iniziativa che ho lanciato nel settembre dell'anno scorso: Share the Journey - Condividi il viaggio. Il viaggio, infatti, si fa in due: quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro cuore per capirli, capire la loro cultura, la loro lingua, senza trascurare il contesto attuale. Questo sarebbe un segno chiaro di un mondo e di una Chiesa che cerca di essere aperta, inclusiva e accogliente, una chiesa madre che abbraccia tutti nella condivisione del viaggio comune. Non dimentichiamo, come ho già detto precedentemente, che è la speranza la spinta nel cuore di chi parte lasciando la casa, la terra, a volte familiari e parenti, per cercare una vita migliore, più degna per sé e per i propri cari. Ed è anche la spinta nel cuore di chi accoglie: il desiderio di incontrarsi, di conoscersi, di dialogare… La speranza è la spinta per “condividere il viaggio” della vita, non abbiamo paura di condividere il viaggio! Non abbiamo paura di condividere la speranza. La speranza non è virtù per gente con lo stomaco pieno e per questo i poveri sono i primi portatori della speranza e sono i protagonisti della storia.
Ma come deve muoversi, in concreto, l'Europa? 
L'Europa ha bisogno di speranza e di futuro. L'apertura, spinti dal vento della speranza, alle nuove sfide poste dalle migrazioni può aiutare alla costruzione di un mondo in cui non si parla solo di numeri o istituzioni ma di persone. Tra i migranti, come dice lei, ci sono persone alla ricerca di “condizioni per vivere o sopravvivere”. Per queste persone che fuggono dalla miseria e dalla fame, molti imprenditori e altrettante istituzioni europee a cui non mancano genialità e coraggio, potranno intraprendere percorsi di investimento, nei loro paesi, in formazione, dalla scuola allo sviluppo di veri e propri sistemi culturali e, soprattutto in lavoro. Investimento in lavoro che significa accompagnare l'acquisizione di competenze e l'avvio di uno sviluppo che possa diventare bene per i paesi ancora oggi poveri consegnando a quelle persone la dignità del lavoro e al loro paese la capacità di tessere legami sociali positivi in grado di costruire società giuste e democratiche.
Il Vaticano è in Italia e Lei è il vescovo di Roma. Ma il popolo italiano ha riservato grandi consensi alle forze politiche definite “populiste” che non condividono l'apertura delle porte del Paese ai migranti. Come vive questo scostamento tra pecore e Pastore? 
Le risposte alle richieste di aiuto, anche se generose, forse non sono state sufficienti, e ci troviamo oggi a piangere migliaia di morti. Ci sono stati troppi silenzi. Il silenzio del senso comune, il silenzio del si è fatto sempre così, il silenzio del noi sempre contrapposto al loro. Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle. Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio, talvolta complice, di molti. Soprattutto, il Signore ha bisogno del nostro cuore per manifestare l'amore misericordioso di Dio verso gli ultimi, i reietti, gli abbandonati, gli emarginati.
In che modo si può realizzare un percorso di integrazione in grado di superare paure e inquietudini, che sono reali? 
Non smettiamo di essere testimoni di speranza, allarghiamo i nostri orizzonti senza consumarci nella preoccupazione del presente. Così come è necessario che i migranti siano rispettosi della cultura e delle leggi del Paese che li accoglie per mettere così in campo congiuntamente un percorso di integrazione e per superare tutte le paure e le inquietudini. Affido queste responsabilità anche alla prudenza dei governi, affinché trovino modalità condivise per dare accoglienza dignitosa a tanti fratelli e sorelle che invocano aiuto. Si può ricevere un certo numero di persone, senza trascurare la possibilità di integrarle e sistemarle in modo dignitoso. E' necessario avere attenzione per i traffici illeciti, consapevoli che l'accoglienza non è facile. Ricordo qui quanto scrivevo quest'anno nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace: quattro pietre miliari per l'azione, che amo esprimere tramite i verbi «accogliere, proteggere, promuovere e integrare», e sottolineo che il 2018 condurrà alla definizione e all'approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l'altro riguardo ai rifugiati. Patti che rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che i nostri progetti e proposte siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al disinteresse e alla globalizzazione dell'indifferenza.

domenica 9 settembre 2018

Osservatore Romano: Alla macchinetta del caffè

· Prontuario spirituale per studenti pragmatici ·

 Tra la a e la z si incontra la lettera c come caffè. «Quello della moka da sei, nella tazza grande della colazione, tenuta stretta con due mani, nelle sere d’inverno: davanti al libro, dentro la tuta, raggomitolati. Compagno di notti di studio quando ormai all’esame manca una manciata di giorni. Quello nero che ti guarda storto ma che ti coccola con i suoi vapori e le sue fragranze. Quello che ti dice: “Come al solito ti sei ridotto all’ultimo”; quello che supplichi: “Per favore non mollarmi: tienimi sveglio”».

Bortolo Uberti, autore di Icaro nella giungla. Prontuario spirituale per studenti pragmatici (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2017, pagine 120, euro 11), di giovani se ne intende. Oggi parroco in periferia, è stato a lungo cappellano dell’università degli Studi di Milano, gomito a gomito con ragazzi di cui conosce le fragilità e i punti di forza. Nel piccolo volume tratteggia una vera e propria spiritualità dello studente, a partire dalla sua familiarità con i pensieri ricorrenti e i gesti quotidiani di una generazione spregiudicata e laboriosa, distante dal cristianesimo quanto assetata di autenticità.

Ventisei capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto, senza parole inutili o ragionamenti farraginosi. Al contrario, la fede rende qui nominabili le cose d’ogni giorno, quasi a rilevarne la dignità, lo spessore, l’autentica profondità. Dall’interno di quel vortice che, specie dopo l’estate, risucchia molti giovani tra piani di studio, appelli e lezioni, lo Spirito è avvertito e descritto in azione.

Ciò che da secoli la Chiesa canta — non solo mentes tuorum visita, ma anche accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus — nelle pagine di Uberti sembra plasmare il tempo dell’università, integrando sensi, cuore e mente in un’armonia che non s’improvvisa: sorge solo se coltivata e accolta.

Così, a una cultura del dovere, già soppiantata dall’imperativo del “se mi va”, il cristianesimo dimostra di opporre un gusto del bene tangibile e convincente, che chiede sì esercizio e attenzione, ma non ruba leggerezza e libertà.

Come nei padri della Chiesa antica, la vita buona e il combattimento necessario a farla prevalere sono rappresentati nella loro dinamica concretezza. Non di principi, infatti, ma di una fenomenologia si alimenta questa spiritualità incarnata, che evita in origine di separare fede e vita. Il padre spirituale sa bene, ad esempio, che «l’ansia è nemica della sapienza. Nasce dall’affanno dell’efficienza e della prestazione, ma soprattutto affonda le proprie radici nella presunzione di bastare a se stessi, di potercela fare per conto proprio. L’ansioso è convinto che tutto dipenda da lui e che, allo stesso tempo, lui non sia all’altezza del compito o non ne abbia le risorse. In questi momenti occorre fermarsi». Tuttavia, per assecondare lo Spirito, la buona guida non rimprovera ai giovani le convinzioni sbagliate e non dà istruzioni che generino ulteriore affanno.

Al contrario, dopo avere a lungo ascoltato, descrive ironicamente il nemico che «s’insinua di soppiatto, dalle retrovie, eludendo barricate e tattiche di difesa. Prime vittime a cadere sotto le sue lame affilate sono le matite, poi le unghie. Perché ha i denti, l’ansia: che smozzicano, tritano, torturano. Cadono anche gli amici, morsicati dal nervosismo spigoloso e aguzzo. E infine i genitori e i familiari in genere, addentati da quella tensione per cui ogni parola è una miccia accesa che fa esplodere la dinamite. Ma a stare male, più di tutti, è il portatore — insano — di ansia. S’insinua dallo stomaco. Perché lei abita lì. Se ne sta assopita a lungo, prima di girarsi e rigirarsi e poi stiracchiarsi assonnata fino a metter giù i piedi e ad andare in giro, rovinando la giornata, la settimana, la vita. Basta poco a svegliarla: un esame, magari solo parziale, una scadenza, un piano di studio da consegnare, un libro di lunghezza maggiore del previsto o inversamente proporzionale al tempo per studiarlo, una decisione da prendere, una risposta da dare... Così lei comincia a stringere lo stomaco, poi a chiuderlo, e quando cresce lo contorce e lo ribalta. Finisce per trasformarsi in brufoli; o, più spesso, in divoratore insaziabile di risorse».

Lo studente trova qui comprese le sue paure, le vede esorcizzate, avverte la possibilità di una compagnia in cui il cuore sia risanato.

In ogni capitolo l’autore non esita, infatti, a indicare nelle Scritture squarci di una vita liberata: la Bibbia appare come il grande codice di riferimento, che rende decifrabili anche momenti complessi e tensioni inevitabili. È canone, unità di misura, criterio di discernimento. Uberti dimostra di aver chiaro ciò che molti sembrano non concedersi più: «Si studia per prepararsi a una professione e al proprio futuro, certo, ma questo non esclude né il gusto, né la passione.

E il gusto non è un’idea; è qualcosa che tocca i nostri sensi, che si sente in bocca, che si assapora e riempie lo stomaco». Dei giovani conosce la concretezza, la fisicità. Per questo può scrivere che «lo studio non finisce solo nella testa, ma anche nel palato e sulla lingua».

Per introdurre un criterio, rivoluzionario nella sua semplicità: «La passione non concerne “il resto”, cioè quello che viene dopo una lezione e lo studio. La passione deve stare dentro ogni pagina di un testo, ogni riga degli appunti, ogni ora di insegnamento. Vale per lo studente come per il docente.

Il gusto e la passione prendono spessore con la pazienza del tempo dedicato, come un buon vino acquista corpo maturando nella botte. La bellezza dello studio prende forma quando il sacrificio e la fatica non sono maledizione ma pennelli e colori nelle mani del pittore, o lo scalpello in quelle dello scultore». Si può allora intravvedere in che senso l’icona più alta della bellezza sia la croce di Gesù, «perfezione dell’amore intrisa nel limite estremo dell’umano. Sintesi e vertigine del senso. Capolavoro. Nelle trame di ore di lezione e di studio deve affiorare un frammento di questa bellezza. Se no non “serve” a niente». È un’avventura condivisa, l’università; ma lo è la vita cristiana stessa, che tra i banchi può crescere o addirittura nascere.

Nessuno, infatti, può darsi da sé un respiro così profondo e una sensibilità tanto accesa. L’armonia interiore è sempre precaria e le migliori determinazioni sono esposte al logorio di insidiosi nemici.

Esistono, certo, le cappellanie. Ma, forse, prima ancora il caffè: «L’altro. Quello della macchinetta, nei corridoi o negli androni dell’università. Quello corto con la cremina, nel bicchierino di plastica molle: 30 centesimi tutto compreso, zucchero e bastoncino. Preso di corsa, tra un’ora e l’altra o dopo un panino trangugiato a pranzo: quello delle quattro chiacchiere, degli incontri imprevisti o della battuta con chi non conosci». Le amicizie sorgono generalmente così. Lo Spirito stesso pare confidare nel fatto che «l’università non è fatta solo di aule e biblioteche, ma anche di macchinette del caffè».

Il sapere e la conoscenza, ma persino i cristiani, crescono solo nell’incontro.

di Sergio Massironi

sabato 8 settembre 2018

Avvenire: King, la Chiesa italiana, gli «inopportuni». Ascoltiamo chi bussa nella nostra nottee:

«Qualcuno bussa a mezzanotte» è il titolo di un sermone in cui il reverendo Martin Luther King, commenta il brano di Vangelo dell’amico inopportuno che chiede nel cuore della notte tre pani. (Lc 11, 5-6). L’uomo che ha osato sognare una società fondata sull’uguaglianza, dove il razzismo e la discriminazione non fossero di casa e di cui nei giorni scorsi ricorrevano i 45 anni del suo famoso discorso I have a dream , in questo sermone ci offre degli spunti interessanti per questi nostri strani giorni . Elenca infatti una serie di pericoli, le notti, in cui l’umanità del suo tempo era caduta, concludendo con «la mezzanotte dell’ordine morale».

«A mezzanotte i colori perdono i propri caratteri distintivi e si fondono in una cupa tonalità grigiastra. Anche i princìpi morali hanno perso i loro caratteri distintivi: per l’uomo moderno, la ragione assoluta e il torto assoluto dipendono da ciò che fa la maggioranza. Il giusto e lo sbagliato sono legati ai gusti e alle abitudini di una particolare comunità. Abbiamo inconsciamente applicato la teoria della relatività di Einstein, che descriveva correttamente l’universo fisico, al campo morale ed etico».

In questi strani giorni di relativismo politico e mediatico, dove sembrano avere la meglio slogan e proclami urlati tra un hashtag e un post , anziché argomentazioni e ragionamenti che si fondino su dati reali e analisi della complessità, sono messi in questione i fondamentali della convivenza umana. Tutto lascia intendere che delle notti che l’umanità ha vissuto nel buio della ragione e dell’odio ci si sia dimenticati e ci si stia incamminando in vie pericolose dove si insinua la banalità del male.

Nell'indifferenza generale e in un clima di paura creato ad arte si sta pericolosamente mettendo in discussione quell’imperativo etico e morale che fa della solidarietà con chi si trova in difficoltà un’obbligazione giuridica e politica che viene prima di ogni norma e che è alla base di processi di formazione delle comunità democratiche e delle relative organizzazioni sociali. Ma il reverendo King sottolinea che il buio della notte in cui rischiamo di addentrarci viene interrotto da chi bussa alla porta come amico inopportuno, come ospite inatteso. Nel Vangelo, in quel bussare alla porta si apre lo spazio di un’umanità amicale che spinge a riconoscersi prima di tutto come uomini e donne e poi come fratelli destinati a sedersi all’unica mensa della casa comune.

Oggi quel bussare “inopportuno” alle porte dell’Europa e dell’Italia ci offre la possibilità di arrestare la nostra discesa nella notte. I profughi e migranti che hanno vissuto quel buio fatto di ingiustizia, guerra e violenza e hanno risieduto nell’oscurità dell’infra-mondo dei diritti come ci hanno raccontato gli sbarcati della Diciotti e come ci mostrano le notizie delle ultime ore che arrivano dalla Libia, bussano oggi ancora alla nostra porta. Il bussare nella notte, come scriveva il reverendo King, interroga anche la Chiesa.

Le esorbitanti cifre di un discutibile sondaggio messe in prima pagina da un quotidiano nel cuore d’agosto, secondo cui una percentuale consistente dei cattolici sarebbe contraria all’accoglienza di rifugiati e immigrati, contrastano con la disponibilità di molte diocesi italiane a dare straordinaria ospitalità ai naufraghi della “Diciotti” e, più ordinariamente, ad almeno altre 25mila persone, ma evidenziano anche una profonda criticità che già nelle parole di King si faceva preoccupazione: «Se la Chiesa non ritroverà il suo fervore profetico, diventerà un inutile consesso sociale privo di autorità morale e spirituale». Ascoltiamo chi bussa nella nostra notte.
Camillo Ripamonti
venerdì 7 settembre 2018


Sacerdote, presidente Centro Astalli – Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia