di ENZO BIANCHI
Non passa giorno in cui non si sentano rimbalzare da un lato all’altro del globo e del nostro paese parole usate come pietre contro lo straniero, il diverso, l’altro, soprattutto quando questo coincide con il povero, l’ultimo, l’indifeso. Parole che contraddicono un sentimento e un principio umano antichi quanto il loro opposto “homo homini lupus”: la solidarietà, la condivisione. Sì, perché fin dalla primitiva concorrenziale caccia al cibo per la sopravvivenza, l’essere umano ha avuto davanti a sé una scelta fondamentale: vivere contro gli altri oppure vivere con gli altri, con-vivere e, quindi, condividere l’essenziale per vivere.
Per la fede ebraica e cristiana, è Dio la presenza che non solo chiede questa condivisione nell’equità, ma la impone, “ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote” (cf. Lc 1,53), mentre oggi si finge di credere che la mano invisibile del mercato possa rivelarsi come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini (cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Giovanni Crisostomo ammoniva: “Il ‘mio’ e il ‘tuo’, queste fredde parole, introdussero nel mondo infinite guerre … Un tempo i poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni”. Ecco da dove sorgono contrasti, inimicizie, violenze che, presto o tardi, da verbali diventano fisiche…
È urgente riscoprire la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente ritrovare l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente esercitarsi alla “con-vivialità”, alla condivisione del cibo per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro.
Il cibo – simbolo concretissimo dell’essenziale per vivere – è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Nel mondo e anche nel nostro paese, i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi, mentre i poveri sono sempre più poveri e più numerosi, incitati alla guerra tra di loro perché non si rivoltino contro le ingiustizie che patiscono. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Nel Padre nostro non sta scritto: “Dammi oggi il mio pane quotidiano” – suonerebbe come una bestemmia! – ma “Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare ‘Padre nostro’ e non ‘Padre mio’”! Se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora “le pain se lève”, “il pane insorge, si alza in rivolta”. Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri.
Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso. Il Vangelo ci ricorda che, assieme all’accoglienza dello straniero, è sulla condivisione del cibo che saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35.42). Richiamarsi al Vangelo, allora, per un cristiano non è e non può essere mai chiamata a raccolta per difendere un’identità, bensì chiamata a un cammino di umanizzazione che comincia dal riconoscere la dignità umana dell’altro: “Dov’è tuo fratello?”.