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mercoledì 23 maggio 2018

Mons. Galantino – È ora di spalancare le finestre dell’anima

Dev’essere stato surreale il silenzio che, quel primo Sabato Santo, circondava gli spazi
immediatamente circostanti la tomba messa a disposizione da Giuseppe di Arimatea per seppellire il corpo di Gesù. Un silenzio unico perché raccoglieva in sé tante altre forme di silenzio. Silenziosa infatti è la solitudine di un anziano che rientra nella sua casa vuota; silenzioso è il dolore di un malato nel suo letto di ospedale, o la delusione di un bambino, o le lacrime di un amante tradito. Silenzioso è Dio che tace, anche di fronte al grido stravolto dell’uomo ferito.

Il silenzio del Sabato Santo, e qualsiasi altra forma di silenzio, è come un paio di mani vuote, chiuse ad attendere; è come lo sguardo lucido di una madre che per la prima volta vede il suo bambino.

È un intervallo, una pausa, come quella posta tra le note per far risuonare l’armonia. È come lo spazio vuoto tra una parola e l’altra: serve a dare un senso alla scrittura e a trasmettere, così, un messaggio altrimenti incomprensibile.

Clarice Lispector, concludendo un suo libro scrive: «Il meglio non è ancora stato scritto. Il meglio è fra le righe». Ci è chiesta l’intelligenza di saper leggere tra le righe, ci è chiesta la pazienza di riuscire a intuire quel che non è detto, quel che non può venir detto. Perché le parole non bastano: sciuperebbero tutto.

Ci viene chiesta la capacità e il coraggio di immergerci in questo silenzio, come ci si immerge nel mare di notte. Notte e silenzio sono fratelli: possono entrambi far paura, ma anche farci giungere a un approdo luminoso. Quasi un gancio che ci permette di aggrapparci all’invisibile, o a quella zona quieta e nascosta in noi dove tutto è placato oppure, per dirla ancora con la Lispector, «quel cuore che batte nel mondo».

Per il credente «quel cuore che batte nel mondo» è il Signore Risorto. Come il pulsare del cuore, Egli chiede di essere accolto tra le righe del nostro vivere, tra i rumori e le preoccupazioni che affollano la nostra mente. Se accolto, può diventare il “meglio” di noi. Ci apre alla contemplazione restituendoci il gusto della vita e della bellezza. Non la bellezza eterea ed evanescente ma quella impastata di fatica e di sudore.

Proprio come la fatica e il sudore che hanno prodotto un quadro meraviglioso, una scultura imponente, una musica celestiale: racchiudono tutto il tormento e l’impegno del loro autore. Proprio per questo, sono belle!

Le brutture, anche quelle della vita personale e di quella pubblica, si superano facendosi guidare sulle vie della bellezza. Sembra perfetta la bellezza, ma nasce dalla imperfezione, dal superamento dei limiti e delle fragilità. Nei momenti di crisi, come quelli che stiamo vivendo oggi, abbiamo bisogno di questa certezza: quando tutto ci sembra brutto e irrimediabilmente compromesso,  quando le nostre relazioni ci sembrano aride e sterili proprio allora possiamo far nascere la bellezza, possiamo regalare un gesto o uno sguardo che addolciscano la bruttura e l’aridità. E mi sorprende sempre pensare a quanto la bellezza sia unita alla tenerezza. Un verso di Alda Merini dice: «La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori». Questa scintilla di luce che scaturisce da una frattura, questo lampo che improvvisamente rischiara quel che sembrava una rovina o una maceria, è quanto di più grande possiamo vivere, è l’esperienza più vicina al mistero della creazione e alla realtà della Pasqua.

Quando Dio creò l’universo e si fermò, ammirando quel che aveva creato, un guizzo di tenerezza avrà sicuramente attraversato il suo cuore: perché il bello è sempre intimamente connesso al bene, alla capacità di restituire alla vita il senso della meraviglia. Come se il male non fosse che un progressivo allontanarsi da una sorgente segreta e cristallina che sempre fluisce in noi, a cui l’improvvisa irruzione della bellezza ci fa tornare, ci immerge, ci vivifica.

Mi tornano in mente le parole di Christiane Singer: «La domanda che ci sarà fatta alla fine della nostra vita sarà semplice. Non “chi sei stato?”, ma: “che cosa hai lasciato passare attraverso di te?” Che qualità, che suono? che cosa hai salvato, nascosto nel cuore? A chi hai riflesso il suo splendore segreto? Che libro hai fatto vivere, amandolo? Quale concerto, ascoltandolo di continuo? Di che cosa ti sei preso cura? A che cosa hai aperto il passaggio?».

Aprire il passaggio che dalla morte porta alla vita. Ribaltare la pietra che teneva sigillata quella tomba è il fatto che celebriamo a Pasqua. È importante spalancare porte e finestre della propria anima, raccogliersi, lasciarsi sorprendere dal passaggio improvviso di una luce e concentrarsi sulla cura e l’attenzione alle minime cose.

Sono legate Creazione e Pasqua di Resurrezione, bellezza e tenerezza. Sono abbracciate l’una all’altra, camminano unite, a passi leggeri, nel nostro cuore quando ne veniamo accarezzati. Ne restiamo sorpresi e quasi sconvolti, sembra quasi che ci pungano dolcemente il cuore. A Pasqua una tenebra si è squarciata, il silenzio è stato rotto, il buio si è illuminato lasciando il posto al calore e al bagliore di una possibilità nuova. Per tutti.

NUNZIO GALANTINO

Fonte
Il Sole 24 Ore – COMMENTI E INCHIESTE / Testimonianze dai confini – 31 marzo 2018