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giovedì 28 gennaio 2021

L'Osservatore Romano: Dietrich Bonhoeffer, Il cristiano serve il suo tempo

L’omelia inedita tenuta il 23 settembre 1928 dal teologo protestante davanti ai genitori 


Con i piedi per terra

Essere «progressisti» o «conservativi»? Secondo Dietrich Bonhoeffer, il «bravo teologo protestante» secondo la definizione di Papa Francesco, l’alternativa non è corretta. O meglio, la si deve superare in nome del «qui e ora» che il cristianesimo chiede a ogni credente: «Vuoi Dio? Allora rimani nel mondo», perché «solo nel tempo trovi Dio e l’eternità». Questi passaggi sono tratti dall’omelia inedita (pubblicata per gentile concessione dell’editore) risalente al periodo che Bonhoeffer trascorse a Barcellona. Datata 23 settembre 1928, si tratta di un’omelia del giovane reverendo pronunciata davanti ai genitori. Un testo che impreziosisce una bella e densa antologia di scritti di Bonhoeffer, da poco in libreria per Edizioni Paoline con la cura del teologo pisano Elvis Ragusa. Con i piedi per terra. Un cristiano di fronte a Dio e alla storia  (Milano 2020, pagine 340, euro 36) è una raccolta ragionata di testi, omelie e conferenze di Bonhoeffer tutte incentrate sul confronto vis à vis  con il tempo che l’autore aveva davanti. Un tempo tragico, un periodo drammatico della storia mondiale: la conclusione della prima guerra mondiale (in cui il teologo protestante perse un fratello e tre cugini), la stagione politica alquanto turbolenta della Germania di Weimar, l’ascesa del nazionalsocialismo e il progressivo trionfo totalitario di Adolf Hitler. Nei mesi scorsi, nell’arco di soli quattro giorni, Papa Francesco ha citato in due occasioni Bonhoeffer. Il 12 settembre, nell’udienza alle Comunità Laudato si’, ha affermato: «Prendo una frase del teologo martire Dietrich Bonhoeffer: la nostra sfida, oggi, non è “come ce la caviamo”, come noi usciamo da questa realtà; la nostra sfida vera è “come potrà essere la vita della prossima generazione”: dobbiamo pensare a questo!». E qualche giorno dopo, il 16 settembre, durante l’udienza generale, ha ripreso l’autore di Sequela  (citato a sua volta anche da Benedetto xvi ): «Lo diceva un bravo teologo protestante tedesco, Bonhoeffer, il problema è quale sarà l’eredità, la vita della generazione futura. Pensiamo ai figli, ai nipoti, cosa lasceremo se sfruttiamo il creato». Ragusa, nella dotta introduzione che fa dialogare gli eventi della storia mondiale con il procedere dell’argomentazione teologica di Bonhoeffer, precisa di non voler trasformare il teologo di Resistenza e resa  in un indovino o in un profeta divinatorio. Ma fa venire i brividi leggere quanto Bonhoeffer ebbe modo di pronunciare il 13 gennaio 1933, esattamente il giorno dopo del giuramento di Hitler come cancelliere. Parlando dell’Etica politica  di Friedrich Gogarten, dice: Gogarten «trascura l’ambiguità dello Stato. Egli giustifica lo Stato sempre come qualcosa che c’è già. In questo modo ad esso è attribuito un diritto assoluto. (...) È possibile che esso corrisponda alla dottrina luterana, ma non è neotestamentario. Infatti, lo Stato può assumere anche la forma del maligno. Può essere e fare il più gran male possibile. Naturalmente anche una tale maligna potenza può essere messa al servizio di Dio». Così quasi preannuncia l’eresia di una chiesa filo-nazista alla quale egli si oppose, dando vita alla «Chiesa confessante», in prima linea nel difendere gli ebrei perseguitati dal nuovo corso politico di Berlino. L’antologia curata da Ragusa fa affiorare anche un dettaglio biografico curioso di Bonhoffer: la sua passione per l’India. Nell’ottobre 1931, dopo un periodo trascorso negli Stati Uniti, scrisse ad un amico: «Viste da Oltreoceano sia la nostra situazione sia la nostra teologia appaiono fenomeni alquanto provinciali e nemmeno si sospetta che in tutto il mondo proprio la Germania, e lì in particolare, solo un paio di teologi, abbia capito cosa sia il Vangelo. (...) Vorrei conoscere un altro grande Paese per vedere se da questo verrà la grande soluzione: l’India». Mentre pochi anni dopo (l’11 settembre 1934) annota di essere tormentato «dalla decisione se rientrare in Germania per dirigere un seminario di predicazione cui si deve vita, se rimanere qui [Londra] o andare in India». Restano, comunque, queste pagine un’ottima occasione per avvicinare di nuovo il pensiero di un gigante della teologia novecentesca, capace di forgiare espressioni diventate patrimonio comune della teologia di oggi: la «grazia a caro prezzo», il «Dio tappa buchi». Ma anche un’immagine di Chiesa stupenda e coraggiosa, laddove Bonhoeffer spiega che la comunità dei credenti, di fronte alle ingiustizie del mondo, dovrebbe «gettarsi lei stessa tra i raggi della ruota» per bloccare il meccanismo di sopraffazione e di violazione del debole che spesso sembra regnare nella storia del mondo.

di Lorenzo Fazzini



Per vivere una vita cristiana

Moderno o antico — questa domanda è oggi più che mai in primo piano a tutti gli interessi, non solo nelle questioni di moda o di salute, ma in tutte le aree degli interessi umani, nella scienza, nella letteratura, nella religione. E su questa parola gli spiriti divergono: alcuni gridano assolutamente per ciò che è moderno, altri, che sono coscientemente fuori moda, guardano indietro ai bei vecchi tempi in forma mascherata. Alla domanda: «Vuoi essere una persona moderna?», alcuni rispondono: «Sì», sicuri di loro e altri invece: «No», anch’essi sicuri di loro. Come fa colui che si definisce cristiano? Come si confronta con i cambiamenti dei tempi? Il cristiano deve pensare in modo conservativo o progressista, deve essere antico o moderno? La domanda fondamentale di ogni cristiano è evidentemente la domanda di fronte all’eternità. Come raggiungo l’eternità in mezzo al tempo? Qui, nel continuo cambiamento del divenire e del trascorrere, non c’è nulla di eterno, che rimane, probabilmente c’è — una via — fuori dal tempo, indifferenti a tutto ciò che accade qui, vivere solo nell’eternità.


Si tratta di fuggire il tempo tiranno. D’altra parte, la nostra parola ci chiama: volete trovare l’eternità, allora adesso servite il tempo. Questa parola deve risuonarci come un’enorme contraddizione: Vuoi cose eterne? Allora rimani nel transitorio. Vuoi cose eterne? Allora rimani nel temporaneo. «Vuoi Dio? Allora rimani nel mondo». Sembravamo già in grado di alzarci fuori dal mondo su una scala di virtù verso il cielo. La sponda del mondo era già scomparsa in lontananza e ci siamo spinti lì, in spazi eterni, ancora metà umani, già metà dio — poi la Parola ci ha scagliati indietro dal nostro volo, siamo caduti dall’alto e ci ritroviamo nel mondo. Se vuoi essere eterno, allora servi il tempo, così suona nelle nostre orecchie. Servite il tempo — perché? Perché solo nel tempo trovi Dio e l’eternità. È la volontà nascosta di Dio che si lascia trovare nel tempo; noi troviamo la volontà di Dio solo in Gesù Cristo. Nulla di ciò che esiste nel tempo è divino, nemmeno la Chiesa né la nostra religione. Tutto ciò è soggetto alla fugacità, eppure in tutta la transitorietà del singolo, dell’individuo, è contenuta una parte della volontà di Dio, un pezzo di eternità. Il tempo è come un pozzo profondo e inesauribile, attraverso le cui acque brilla l’oro del fondo mai raggiunto; è come la roccia di montagna attraverso la quale non si vedono le vene d’oro nelle profondità. Tutto l’imperfetto è però almeno immagine del perfetto, tutto il transitorio è un simbolo dell’eterno. «Ogni attimo è diretto a Dio», ha detto un grande storico; vale a dire che ogni attimo nasconde un pezzo di eternità, che è da trovare; Dio governa sopra ogni attimo. L’attimo, il presente, è la parola decisiva a cui punta il nostro testo. Servi il tempo, cioè ogni tempo, cioè il presente. In altre parole, il presente è santo, è sotto l’occhio di Dio, è consacrato, è illuminato di luce eterna. Il presente è l’ora della responsabilità di Dio con noi, ogni presente; oggi e domani, il presente in tutta la sua realtà e diversità; c’è solo un’ora davvero significativa in tutta la storia del mondo: il presente. Chi fugge dal presente fugge dall’ora di Dio; chi fugge dal tempo fugge da Dio. Servite il tempo! Il Signore del tempo è Dio, la svolta del tempo è Cristo, il vero spirito del tempo è lo Spirito Santo. Così in ogni attimo si nasconde questa triplice dimensione: che io riconosca Dio come il Signore della mia vita, che mi sottoponga a Cristo come punto di svolta della mia vita, dal giudizio alla grazia, che [io] provi a fare spazio e forza allo Spirito Santo in mezzo allo spirito del mondo. Servite il tempo; cioè servite Dio, il Signore, Cristo il riconciliatore, lo Spirito, il Santo del nostro mondo. Solo quando permettiamo al presente di adempiere al suo scopo, viviamo una vita cristiana, serviamo il tempo. Servire il tempo — e questo ci riporta alla prima domanda — non vuol dire farsi suo “schiavo”, non vuol dire approvare ciò che è moderno, solo perché è “moderno”. Il servizio include la forza della propria volontà e dei propri pensieri, e non la debolezza di coloro che corrono dietro, di coloro che urlano insieme agli altri; non significa: “servite la moda”, ma servite il tempo.


La moda è ciò che fanno le persone e quindi può essere tanto buona come spregevole. Il tempo è ciò che fa Dio e servire il tempo non significa servire le persone, ma servire Dio. Quindi il cristiano non è né moderno né antico, ma serve il suo tempo, cioè non gli importa delle persone, ma di Dio. Tuttavia così serve “il suo tempo”, cioè si mette in mezzo ad esso, nei suoi compiti e difficoltà, nella sua serietà e nella sua indigenza e serve; è un uomo contemporaneo nel senso più profondo; che si tratti di indigenze “politiche”, “economiche”, di decadenza “morale” e “religiosa” o di preoccupazione per la nostra gioventù adolescenziale — ovunque è chiamato a immergersi nell’indigenza del presente. Entrate con tutto l’amore e tutta la forza che è a vostra disposizione. L’acqua del pozzo del tempo è diventata torbida, in modo che non vediamo più l’oro del fondo eterno; facciamo in modo che il pozzo sia di nuovo puro e limpido, facciamo in modo di trovare un pezzo di eternità nel tempo, scaviamo così in profondità, fino a trovare le fonti eterne. L’amore, però, fa parte del servizio come la cosa più importante; cioè, ama il tuo tempo, in modo da poterlo servire.


Non mettiamoci fuori dagli eventi della modernità! Tutti noi abbiamo la responsabilità della colpa e della miseria di tutti noi, c’è di nuovo da imparare a capire «cos’è la solidarietà all’interno dell’umanità». Tenersi fuori e dire: oggi io non ho nulla a che fare con ciò che accade, è troppo riprovevole per me che mi intrometta in questo, significa «non servire ma giudicare». Sii fraterno: servi il tempo! Il senso più profondo, però, si rivela solo quando consideriamo che non solo il mondo ha il suo tempo e le sue ore, ma che la nostra stessa vita ha il suo tempo e la sua ora di Dio, e che dietro i tempi della nostra vita diventano visibili le tracce di Dio; che i pozzi profondi dell’eternità sono sotto i nostri sentieri e ogni passo riporta una debole eco dell’eternità. Significa solo comprendere la forma profonda e pura di questi tempi per presentarla nella nostra condotta di vita; solo così nel mezzo del nostro tempo incontreremo la santa presenza di Dio. Il mio tempo è nelle tue mani. La mia infanzia, la mia giovinezza, la mia adultità e la mia vecchiaia. Servi il tuo tempo, la presenza di Dio nella tua vita; Dio ha santificato il tuo tempo; ogni tempo, rettamente compreso, porta direttamente a Dio; e Dio vuole che siamo del tutto ciò che siamo. «Sii del tutto bambino», finché sei un bambino, nel gioco e nella gioia, nella ricettività e nella gratitudine, nell’abbandono alla volontà di coloro che ami; «sii del tutto un ragazzo», nell’indipendenza e nella sicurezza, nel coraggio e nel dispetto, che è idoneo al ragazzo; nella forza, ma anche nella sottomissione a colui che adori come tua guida, e per quanto realizzi lo scopo di quel tempo tuo che Dio ti dà, sei radicato nelle profondità dell’eternità.


Porta tutte le gioie e le sofferenze del tuo tempo, riempi l’essenza di ciò che la gioventù è nella sua necessità e nella sua libertà, così è posto su di te il compiacimento di Dio, così sei giunto dal tempo all’eternità. Siate uomini e donne, siatelo del tutto entrambi, nella vostra entità creata da Dio. Siate persone con la propria volontà, con le proprie passioni e le proprie preoccupazioni, la propria felicità e la propria miseria, la propria serietà e la propria incoscienza, il proprio giubilo e il proprio lamento. Dio vuole vedere le persone, non i fantasmi che rifuggano dalla terra; Dio ha amato la terra e ci ha fatti dalla terra, ha reso la terra nostra madre, lui, che è nostro Padre. Non siamo creati come angeli, ma come figli della terra con la colpa e la passione, con la forza e le debolezze, ma siamo figli della terra amata da Dio, amati da Dio, specialmente nella nostra debolezza, nelle nostre passioni, nella nostra colpa; Dio ci ama specialmente nella nostra attitudine ribelle sulla terra — nel tempo, nel nostro tempo; Dio ci vuole nel rimanere nella nostra Madre Terra e ciò che ha donato, nella solidarietà con gli umani, anche dove sono deboli, in fratellanza con il nostro piccolo, debole tempo, e illumina i nostri cuori con un poco d’eternità che infrange ogni tempo. C’è un’antica leggenda greca che racconta del gigante Anteo che era così forte che nessuno poteva batterlo. Molti avevano tentato la lotta e si erano rivelati inferiori, fino a quando arrivò uno che, durante la lotta, tirò su il gigante da terra e improvvisamente ebbe successo su di lui; era finita per lui la sua forza, che scorreva in lui solamente per il fatto che stava con i piedi saldi a terra.

Questa leggenda del gigante Anteo è estremamente profonda. Solo colui che sta con entrambi i piedi sulla terra, che è e rimane del tutto figlio della terra, che non fa tentativi disperati di volare verso altezze che sono irraggiungibili per lui, che si accontenta di ciò che ha e vi resta fedele con gratitudine, questi ha tutta la forza dell’umanità, questi serve il tempo e quindi l’eternità. Poi, però, ci accadrà che nel tempo, per la sua transitorietà, volgiamo sempre di nuovo gli occhi verso il tempo che verrà alla fine dei tempi. Servite il tempo, l’ora che Dio vuole avere con il vostro popolo, con voi stessi; siate uomini del santo presente, che non torna mai più, come quel samaritano compassionevole era l’uomo del presente, in modo da diventare uomini dell’eternità. Il Signore del tempo è Dio. La svolta dei tempi è Cristo. Il vero spirito del tempo è lo Spirito Santo.

di Dietrich Bonhoeffer

venerdì 15 gennaio 2021

L'Osservatore Romano: Reinhard Marx. Via, verso nuove sponde!

«Fratelli tutti» - Per una lettura dell’enciclica di Papa Francesco




 «Se l’era moderna, così assorta a sviluppare e a progettare l’uguaglianza e la libertà, vuole affrontare bene le sfide che ci aspettano, da ora in avanti deve aggiungervi la fratellanza, con altrettanto slancio e tenacia. La fratellanza darà alla libertà e all’uguaglianza il loro giusto posto nella sinfonia» (p. 11). Pongo questa citazione, tratta dal libro Ritorniamo a sognare (14) di Papa Francesco, che ha risvegliato grande attenzione in tutto il mondo, all’inizio della mia riflessione sull’enciclica Fratelli tutti, presentata a ottobre. Scelgo questo spunto di riflessione perché, tra l’altro, con la pubblicazione ravvicinata di un’enciclica e poi di un libro, Papa Francesco chiarisce la sua posizione in modo convincente anche attraverso il suo agire: egli si rivolge — come dice espressamente anche l’enciclica — a tutti gli uomini, al mondo intero. L’enciclica, e ancor più il libro, raccolgono le prime riflessioni e ulteriori pensieri di Papa Francesco dinanzi alla pandemia da coronavirus, che continua a tenere il mondo col fiato sospeso e che inciderà sulla nostra vita — personale, sociale e come comunità mondiale — anche “dopo-covid”.


In un certo senso, con il suo libro Ritorniamo a sognare Papa Francesco svolge una sorta di lavoro di traduzione dell’enciclica. Sembra quasi che voglia assicurarsi che tutti comprendano veramente che desidera superare dei confini anche nel suo pontificato, invitandoci ad agire come lui nei nostri rispettivi ambiti di responsabilità. Questo tema di base è suggerito già dal primo titolo interno di Fratelli tutti, che è «Senza frontiere» (Fratelli tutti, n. 3).


Come con l’enciclica Laudato si’ Papa Francesco si inserisce chiaramente nella tradizione della dottrina sociale cattolica e si ricollega a san Francesco d’Assisi, soprattutto al suo invito a un amore «che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (Fratelli tutti, n. 1). In tal senso, un segnale particolarmente forte di Fratelli tutti è sicuramente il suo riallacciarsi all’incontro con il Grande imam Ahmad Al-Tayyeb ad Abu Dhabi nel 2019 e al Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Con questo riferimento, Papa Francesco sottolinea nuovamente che le religioni non devono servire a dividere e a rafforzare le ideologie, ma essere tutte al servizio dell’unica famiglia umana, e respinge in modo chiaro ogni tentativo fondamentalista di strumentalizzare la religione per i propri fini.


Senz’altro Fratelli tutti può essere letta come somma di quello che è stato finora il pontificato di Papa Francesco, come somma di ciò che egli vuole scrivere nell’album del mondo e anche della Chiesa stessa. Riallacciandosi all’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI , che a sua volta si ricollega fortemente alla Populorum progressio di Paolo VI , Papa Francesco esorta la Chiesa a essere all’altezza del suo ruolo pubblico e a mettersi «a servizio della promozione dell’uomo e della fraternità universale» (Caritas in veritate, n. 11). Anche Fratelli tutti si inserisce nella lunga tradizione dell’annuncio sociale della Chiesa e porta avanti in modo coerente l’idea dello sviluppo integrale della persona.


Dalle prime voci critiche su Fratelli tutti, si è appreso che la fratellanza sociale non è una categoria classica della dottrina sociale, e che il concetto della solidarietà e della giustizia sociale è sufficiente per quanto viene qui definito, che non ha bisogno di altre nozioni. La solidarietà, come spiega anche il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, è un principio sociale ordinatore e una virtù morale che «assurge al rango di virtù sociale fondamentale poiché si colloca nella dimensione della giustizia, virtù [...] per eccellenza” (n. 193). Come già Caritas in veritate, anche Fratelli tutti rafforza il principio etico sociale della solidarietà che, appunto, non si esaurisce nel fatto di essere una categoria giuridicamente esigibile e, se necessario, socialmente garantita, bensì fondamentalmente formula ed esige benevolenza nei confronti di tutti. La fratellanza sociale riprende una categoria fondamentale filosofica della benevolenza, l’amicizia, così come descritta per esempio anche da Aristotele nell’Etica Nicomachea, come gentilezza con la quale per principio andiamo incontro agli altri con un atteggiamento di amabilità, accettazione e riguardo. In effetti, senza questa amicizia non può esserci una vera comprensione dell’altro, che è una delle basi della buona convivenza tra le persone.


Di fatto, Papa Francesco scrive nell’album del nostro tempo una cosa che ha una valenza universale e atemporale, sulla quale per principio tutte le persone di buona volontà dovrebbero essere d’accordo: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (Fratelli tutti, n. 198). Sono molto grato che Papa Francesco con la sua enciclica metta ancora una volta in primo piano questo atteggiamento in apparenza tanto ovvio per trattare con gli altri, ovvero la disponibilità al dialogo, offrendo in tal modo, proprio in un tempo in cui i populismi, i nazionalismi e le ideologie si stanno rafforzando, un orientamento che, appunto, non evidenzia ciò che divide, bensì cerca sempre ciò che unisce, che è in comune. Per questo atteggiamento è però sempre necessario il libero consenso ad accettare e rispettare la diversità di tutte le persone. Secondo me è questo il “buon senso” necessario per superare, o nel migliore dei casi evitare, la divisione all’interno degli Stati e delle società, ma anche a livello mondiale. Di fatto, vedo lo stesso pericolo che vede Papa Francesco in Ritorniamo a sognare: «L’assenza di un dialogo sincero nella nostra cultura pubblica rende sempre più difficile generare un orizzonte condiviso verso il quale inoltrarci tutti insieme» (p. 87).


L’orizzonte condiviso indica la direzione piena di speranza per poter allestire la “casa comune del creato” in modo favorevole e per il bene di tutti gli uomini, a partire da una visione positiva della persona, da un’antropologia radicata nella fede nel Dio Creatore (cfr. Laudato si’, n. 13). Sulla falsariga della Laudato si’, nella sua nuova enciclica Papa Francesco esorta a un cambio di mentalità che deve condurre a una nuova idea di progresso dell’umanità dinanzi alle crisi esistenziali in tutto il mondo. In Ritorniamo a sognare parla addirittura delle «pandemie occulte di questo mondo» (p. 10), come la fame, la violenza e il cambiamento climatico che, nel loro alto potenziale di crisi, dobbiamo superare in modo fraterno e sostenibile come unica famiglia dell’umanità.


La “casa comune del creato” non può quindi essere definita nella modalità della divisione, bensì a partire dall’orientamento al bene comune, che non è inteso solo in modo formale e materiale. Le origini del principio del bene comune risalgono all’antichità greca e continuano a essere molto efficaci anche nella dottrina sociale della Chiesa. Papa Francesco riprende tale principio già nella Laudato si’, correlando a esso i principi sociali di personalità, solidarietà e sussidiarietà, ricomponendo per così dire il caleidoscopio della dottrina sociale della Chiesa a partire dalla Rerum novarum del 1891. La Laudato si’ definisce, come il concilio Vaticano II , il bene comune come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (Gaudium et spes, n. 26).


L’esigenza di fratellanza e di dialogo in Fratelli tutti è però rivolta anche alla Chiesa stessa, che come comunità di persone non è immune dalle tentazioni dell’egoismo e dell’individualismo, dell’abuso di potere, dell’ideologizzazione e del fondamentalismo. La Chiesa non è immune da tutto questo né dalle relazioni intra-ecclesiali né nel suo rapporto con il mondo. Anche nella Chiesa serve il dialogo!


La tentazione della dissoluzione dell’Io, del Sé, è nota anche nella tradizione biblica, come emerge in modo straordinario in Fratelli tutti nella catechesi sulla parabola del buon samaritano. Di quanti passano a distanza dalla persona ferita, Papa Francesco dice: «erano persone religiose [...]: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace» (Fratelli tutti, n. 74).


Anche le esperienze di abuso e violenza nell’ambito della Chiesa hanno mostrato dolorosamente — soprattutto alle persone colpite — quanto possa essere pericoloso il potere quando coloro che esercitano un ufficio o una responsabilità non conservano la consapevolezza dei limiti del loro potere e se il potere non viene controllato, quando la dignità della persona viene ignorata e lesa. Abbiamo imparato, e dobbiamo continuare a insistere su questo, che serve un nuovo modo di pensare che non sia orientato agli interessi di autoconservazione di alcuni, ma al bene di tutto il popolo di Dio. Per questo occorre la forza per il dialogo.


Un fondamento essenziale di tale atteggiamento rinnovato, che ha radici bibliche, è l’idea della Chiesa sinodale, l’antico principio della sinodalità che Papa Francesco riprende anche nel suo libro Ritorniamo a sognare: «Ho voluto ravvivare questo antico processo non solo per il bene della Chiesa, ma come servizio a un’umanità che è così spesso bloccata da discordie paralizzanti» (p. 93). Tuttavia, per essere credibile in questo servizio all’umanità, e quindi per preparare la strada alla buona novella di Dio, la Chiesa deve, in modo analogo, orientarsi a ciò anche nei suoi rapporti intra-ecclesiali. C’è ancora tanto da fare in questo campo.


Con Fratelli tutti e Ritorniamo a sognare Papa Francesco ancora una volta vuole approfondire e allargare l’orizzonte dell’annuncio e dell’azione della Chiesa: è uno sguardo più acuto per le periferie dell’umanità, dell’essere mondo e dell’essere Chiesa. E forse è anche motivato dal desiderio di condurre i necessari dibattiti all’interno della Chiesa in modo tale da non offuscare lo sguardo su ciò che è importante e significativo per la persona e l’umanità in generale. Alla base c’è la domanda centrale del perché esiste la Chiesa. E la risposta di Papa Francesco è altrettanto centrale e chiara: la Chiesa non esiste per se stessa, ma perché tutti gli uomini abbiano la speranza che emana dall’amore di Dio stesso! Partendo dal centro della fede, ovvero l’Incarnazione, la Croce e la Risurrezione, la Chiesa è strumento dell’unità di tutti gli uomini. È questo che dobbiamo farci scrivere molto chiaramente nell’album da Papa Francesco con Fratelli tutti.


di Reinhard Marx

Cardinale arcivescovo di München und Freising, in Germania

sabato 2 gennaio 2021

L'Osservatore Romano, Un’occasione preziosa per tornare a dire «io», Sergio Massironi

 La luce in fondo al tunnel sorge anche dall’assumere ciascuno il proprio compito



Qualcosa di profondo negli ultimi mesi è cambiato. Andiamo incontro al nuovo anno più consapevoli di quanto ci leghi un comune destino. Investiti da tragedie planetarie, sono molti a riconoscere, o almeno a invocare, la fine dell’autoreferenzialità e l’inizio di un tempo del “noi”. Conviene non gioirne troppo presto: perché si tratti di fraternità, l’essere insieme domanda una silenziosa rivoluzione nell’io. È a questo livello che il cristianesimo non può abbandonare il campo, in una partita che si gioca nel cuore dell’Occidente e che investe il soggetto. Si tratta di non abdicare e piuttosto di andare al fondo della modernità, delle sue istanze più radicali. Avendone rilevati i limiti, non ne va disinnescata l’originalità. Esiste infatti un noi, un prevalere del collettivo, capace di azzerare non solo la libertà, ma anche la giustizia. «Fratelli tutti» è un’espressione di cui va colto il carattere escatologico e paradossale, se vogliamo che il suo contenuto divenga progressivamente realtà. Solo una conversione può infatti modificare il nostro sentire.


Ci sono dei segnali da cogliere in tempo. Sono numeri, dati. «L’anno della paura nera» come il Censis ha definito il 2020, porterà con sé conseguenze gravi e di lungo periodo: di esse impressiona quella che il 54° Rapporto antepone a tutte le altre, «la propensione a rinunciare volontariamente alla solitamente apprezzatissima sovranità personale: il 57,8 per cento degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome e a tutela della salute collettiva, lasciando al governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e su cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale; il 38,5 per cento è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni. La paura pervasiva dell’ignoto, osserva ancora il Censis, porta alla dicotomia ultimativa «meglio sudditi che morti». E porta a vite non sovrane, «volontariamente sottomesse al buon Levitano». Si tratta di un’analisi drammatica.


Nella popolazione tra i 18 e i 34 anni le due percentuali salgono rispettivamente al 64,7 e 44,6 per cento. L’Istituto di ricerca evidenzia il nesso tra questo tracollo dell’io e la crescita di un livore collettivo, descritto come una logica “o salute o forca”: richiesta di pene severissime per chi non rispetti le misure di contenimento o abbia mal gestito l’emergenza, del carcere per chi violi la quarantena, di negazione delle cure per gli anziani e per chi non si sia adeguatamente protetto; boom di simpatie per la reintroduzione della pena di morte. «C’è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause»: così si presenta il collettivo cui urge guardare, per chiederci chi siamo e chi saremo. In che senso e in che modo dire “noi”?


Siamo a un tornante cruciale non solo dello Stato di diritto, ma della stessa missione ecclesiale: l’uno e l’altra sorgono dalla fine della paura, da un soggetto sorpreso dalla coscienza della propria dignità. Luce invece di tenebre. Mai come in quest’ora, esposti a un futuro spogliato di qualsiasi promessa, occorre riconoscere nei Lumi, cioè nella speranza, un punto di non ritorno. E parlare a un io divenuto troppo fragile, stimando coscienza e libertà come il Santo dei Santi, più di quanto non si sia fatto sin qui. L’individualismo — facile bersaglio — è solo una defigurazione: indebolimento, tradimento di quel compito che ciascuno è per sé stesso. Non conviene invocare un’epoca del noi, prima di aver colto che il fondamento della fraternità è una coscienza filiale, libera, singolare, grata, sovrana. Certamente l’Illuminismo ne ha colto l’importanza in modo parziale e astratto. E tuttavia non c’è vangelo se non a rivelare che Dio è lì dove ciascuno può esser presente a sé stesso. La maturità dei singoli fa tremare le istituzioni, mette in forse il potere, rompe la ripetizione, genera forme nuove di legame: può tuttavia sorgere diversamente una vita insieme realmente umana e inclusiva, che abbia il sapore della fraternità? Già nel 2013, la filosofa Roberta De Monticelli rilevava: «La nostra questione diventa quella dei nessi fra rinnovamento civile di una società e rinnovamento morale di ciascuno, fra la speranza civile e la speranza che ci tiene in vita come persone, o che ci manca, invece, e ci fa mancare di vita. Abbiamo bisogno di sentire che le nostre vite, e soprattutto quelle dei nostri figli, valgano la pena che costano, cioè abbiano senso».


Dopo il 2020, va presa di petto la rassegnazione che ci incupisce e percepito il rilievo collettivo della speranza. La consistenza dell’io, la sua resilienza, la lucidità della coscienza appaiono ormai questioni di valore politico, la cui sacralità non giustifica più una marginalizzazione del soggettivo nel campo delle opinioni. Prospettive forti di prima persona sono indispensabili a vincere il grigiore in cui il mondo si appiattisce e appare privo di valore: tutto annoia o disgusta, «sono tutti uguali», in-differenti. La comunione dei santi, nella fede cristiana, è la forma di un collettivo in cui il noi ha scongiurato quella banalità che — il secolo passato ce lo insegna — non genera altra banalità, ma il male più cieco. Il segreto della comunione dei santi sta nell’intreccio tra l’unicità compiuta di ciascuno, l’irripetibilità di ogni momento, il carattere escatologico del suo realizzarsi. È veramente un altro mondo che già agisce sul nostro, uno squarcio che dissolve la ciclicità del tempo, quanto ogni ingenua idea di progresso. Esposti all’incertezza — dopo un anno in cui non si è parlato che di malattia, di pericolo, di morti — la speranza collettiva sorge là dove dai numeri si passi ai volti e sia confessata l’insostituibilità di ciascuno. Il suo opposto, la disperazione, può assumere persino la forma liturgica con cui la distribuzione delle prime dosi di vaccino è stata celebrata nei giorni scorsi sui media: tonalità estranee a ogni ragionevole idea di scienza e di cura. Ci prende spesso, davanti allo schermo, la sensazione di un vuoto, quasi mancassero le cose di cui parlare, la capacità di vederle, di apprezzarle, di interrogarsi. Tutto allora diviene enfatico, ripetuto, gridato. Non c’è complessità, non c’è chiamata in causa, nulla da interpretare. La luce in fondo al tunnel è fatta sì di ricerca, di successi medici e talvolta persino politici, ma sorge essenzialmente dall’assunzione ciascuno del proprio compito. Questo deve dirci la morte: che la vita è nostra, è adesso, è chiamata. Occorre esserci, non abdicare, avvertire — mentre si è nel guado — di dovere a tutti la propria parola, la propria presenza. Il contrario è assistere dal proprio divano all’ineluttabile, invocando il Levitano, quel noi impersonale che solleva dal risponder di sé. La morte — se non rimossa — espone a un’esperienza inaggirabile di solitudine e introduce un ordine di valori e criteri di giudizio che costituiscono il più dinamico appello. La gravità di quell’ora — da guardare negli occhi — risveglia e motiva, non paralizza come il non senso, l’impotenza, lo star male. Chi farà circolare questa buona notizia, da tutti comprensibile? «Il tempo del sentire è tempo di crescita» ha scritto ancora De Monticelli. Ma ogni crescita è lenta. Una persona cresce in quanto cresce la sua consapevolezza. Il sentire non è legato all’azione né allo scopo, ma per questo chiede sosta, riempie il tempo vissuto e tipicamente acquieta, ci fa silenti. In questo sostare, in questa quiete, senza che ci sia volontaria introspezione, cresce anche il senso di sé, di ciò che più conta, di ciò che ci definisce. Cresce o entra in crisi, che è un altro modo in cui si matura. Per questo Agostino scrisse quella frase tanto nota e tanto fraintesa: In te ipsum rede – in interiore homine habitat veritas. Da chi è erede di una simile tradizione e testimone della sua fecondità, può venire nel nuovo anno un contributo essenziale, che superi i confini confessionali e investa la qualità della vita, approfondendo la nozione di salute, cioè di salvezza. Nulla è infatti disumano e impersonale come il balletto dei numeri, la conta dei morti, la statistica dei contagi che il 2020 ci ha tentato di considerare normalità. Fraterno è un mondo in cui io esista e — quando non sarò più — non sia anonimamente passato.


30/12/2020

di Sergio Massironi