SILENZIO, GREMBO DELLA PAROLA
27 agosto 2020
La vita monastica inizia presto nella storia del cristianesimo come vocazione a «vivere in Cristo», adottando i mezzi che rivelano la forza trasformatrice del dono del battesimo. La radicalità del battesimo è tutto ciò che un cristiano vuole vivere nella vita monastica ai suoi inizi, cioè nell’arco del III-iv secolo. Tratterò dunque il tema del silenzio nella vita monastica in quello che sono state le caratteristiche delle prime generazioni di monaci.
Tutta la tradizione monastica dell’Oriente e dell’Occidente si riconosce nell’esortazione che san Benedetto ha messo nel Prologo della sua Regola: «Ascolta figlio»! Questa parola è come una «immagine verbale» del comandamento dell’ascolto che costituisce l’identità del popolo di Dio (vedi per esempio Deuteronomio 6, 4-5). L’ascolto della Parola determina anche l’identità del cristiano.
Il silenzio nella vita monastica è dunque prima di tutto «un modo di disporsi dell’orecchio». Fa parte di quella atmosfera spirituale che costituisce la vita monastica, quindi la spiritualità del monaco di ogni tempo.
Verso la Parola di Dio è orientato l’orecchio del monaco e verso la sua legge il cuore, per cui può dire con il salmista: «Verso Dio vibra di silenzio l’anima mia» (traduzione possibile del versetto 2 del Salmo 61). Il silenzio del monaco è in funzione dell’ascolto della Parola che lo nutre e lo fa vivere.
Questo legame fra ascoltare e vivere è fondamentale nella fede: chi sa ascoltare la voce della Parola, vivrà. È stato e sarà così. «I morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che avranno ascoltato vivranno» (Giovanni 5, 25). Ecco allora l’invito dell’evangelista Luca: «Fate attenzione a come ascoltate» (Luca 8, 18). Da come ascolta, si capisce a chi il monaco obbedisce e di chi èla parola di cui vive. Non c’è dubbio: l’ascolto della Parola è il primo comandamento della vita monastica e il silenzio costituisce la sua «fisionomia interiore». Il silenzio «è molto più di un semplice non-parlare: è una fisionomia interiore, è qualcosa che dà il tono a tutta la vita monastica, per cui la povertà, l’obbedienza, il servizio hanno il colore, il volto del silenzio. Infatti cos’è la preghiera se non l’anteporre Dio e fare tacere l’idolo che è il proprio “io”». (...) Sant’Efrem scrive: Dio è «il Silenzio che non viene percepito, è il tacere che non viene sentito». Il silenzio è lo stile dell’agire di Dio. Negli eventi della salvezza Dio si esprime secondo la «musica» di due arpe, «una silenziosa e l’altra eloquente. E la predicazione del silenzio dell’una non era compresa da coloro che chiacchieravano. L’arpa silenziosa insegnava tramite l’azione, mentre quella parlante lo faceva con la voce. Con parole e azioni, tutt’e due insieme, proclamavano il Signore di tutto».
È così particolare di Dio l’agire nel silenzio, che è quanto il diavolo non può comprendere. Sant’Ignazio di Antiochia fa questa dichiarazione: «Il principe di questo mondo ha ignorato la verginità di Maria, il suo parto come anche la morte del Signore: tre misteri di alta voce che furono fatti nel silenzio». Ed Efrem commenta: «Le parole di questo silenzio sono degne di lode».
Scrive Rowan Williams, che nello stile di Dio, il silenzio permette «che ciò che è sia ciò che è» e ricorda: «Esiste un documento cristiano del ii secolo, noto come il Protovangelo di Giacomo, in cui troviamo una descrizione del momento della nascita di Gesù. Giuseppe è uscito a cercare una levatrice, Maria è sempre nella grotta. Mentre Giuseppe cammina nel villaggio, all’improvviso tutto si ferma. Egli stesso racconta di aver visto un pecoraio nel campo mentre intingeva il suo pane nella pentola e la sua mano bloccata a mezza via verso la bocca; un uccello in mezzo al cielo fermato mentre volava. Per un momento tutto rimane immobile, poi i movimenti ricominciano e Giuseppe sa che la nascita è avvenuta in quell’istante di silenzio assoluto».
Il silenzio è costitutivo dello stile di vita del monaco, del modo di vivere, del modo di pensare, del modo di relazionarsi. Questo stile di vita si può riassumere intorno alla parola «sobrietà», nepsis. Per esempio, nello stile di vita di monaci delle prime generazioni non c’è solo una sobrietà di parole nelle relazioni: persino di Dio si deve parlare e discutere poco. I monaci di Solesmes hanno studiato con il computer i detti dei Padri del deserto e sono arrivati ad una costatazione sorprendente: «Di Dio non si parla molto, e neanche di Cristo e della Vergine Maria». Nell’età matura del monaco, le «visioni» sono piuttosto «voci» di incoraggiamento, di consolazione, oppure esortazioni alla vigilanza. Perciò le prime generazioni di monaci non parlano di Dio ma della loro esperienza di Dio che salva, di Cristo che vince, trasmettono cioè la loro esperienza di salvezza per aver «ascoltato la parola» e obbedito. Quel narrare uno all’altro l’esperienza di salvezza genera comunità di credenti, il padre spirituale narrando la salvezza genera un figlio spirituale e insieme generano una comunità che testimonia e glorifica Dio. Il monaco è perciò parola incarnata più che parola pronunciata. Ecco allora un interessante aspetto della vita monastica nelle sue prime generazioni: una preferenza per la via apofatica in teologia. Che significa? La conoscenza di Dio non può identificarsi con i concetti o le immagini, ma raggiunge la sua verità nel silenzio o nell’adorazione.
di Michelina Tenace