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venerdì 28 agosto 2020

L'Osservatore Romano: L'orecchio del monaco

 SILENZIO, GREMBO DELLA PAROLA


27 agosto 2020

La vita monastica inizia presto nella storia del cristianesimo come vocazione a «vivere in Cristo», adottando i mezzi che rivelano la forza trasformatrice del dono del battesimo. La radicalità del battesimo è tutto ciò che un cristiano vuole vivere nella vita monastica ai suoi inizi, cioè nell’arco del III-iv secolo. Tratterò dunque il tema del silenzio nella vita monastica in quello che sono state le caratteristiche delle prime generazioni di monaci.

Tutta la tradizione monastica dell’Oriente e dell’Occidente si riconosce nell’esortazione che san Benedetto ha messo nel Prologo della sua Regola: «Ascolta figlio»! Questa parola è come una «immagine verbale» del comandamento dell’ascolto che costituisce l’identità del popolo di Dio (vedi per esempio Deuteronomio 6, 4-5). L’ascolto della Parola determina anche l’identità del cristiano.

Il silenzio nella vita monastica è dunque prima di tutto «un modo di disporsi dell’orecchio». Fa parte di quella atmosfera spirituale che costituisce la vita monastica, quindi la spiritualità del monaco di ogni tempo.

Verso la Parola di Dio è orientato l’orecchio del monaco e verso la sua legge il cuore, per cui può dire con il salmista: «Verso Dio vibra di silenzio l’anima mia» (traduzione possibile del versetto 2 del Salmo 61). Il silenzio del monaco è in funzione dell’ascolto della Parola che lo nutre e lo fa vivere.

Questo legame fra ascoltare e vivere è fondamentale nella fede: chi sa ascoltare la voce della Parola, vivrà. È stato e sarà così. «I morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che avranno ascoltato vivranno» (Giovanni 5, 25). Ecco allora l’invito dell’evangelista Luca: «Fate attenzione a come ascoltate» (Luca 8, 18). Da come ascolta, si capisce a chi il monaco obbedisce e di chi èla parola di cui vive. Non c’è dubbio: l’ascolto della Parola è il primo comandamento della vita monastica e il silenzio costituisce la sua «fisionomia interiore». Il silenzio «è molto più di un semplice non-parlare: è una fisionomia interiore, è qualcosa che dà il tono a tutta la vita monastica, per cui la povertà, l’obbedienza, il servizio hanno il colore, il volto del silenzio. Infatti cos’è la preghiera se non l’anteporre Dio e fare tacere l’idolo che è il proprio “io”». (...) Sant’Efrem scrive: Dio è «il Silenzio che non viene percepito, è il tacere che non viene sentito». Il silenzio è lo stile dell’agire di Dio. Negli eventi della salvezza Dio si esprime secondo la «musica» di due arpe, «una silenziosa e l’altra eloquente. E la predicazione del silenzio dell’una non era compresa da coloro che chiacchieravano. L’arpa silenziosa insegnava tramite l’azione, mentre quella parlante lo faceva con la voce. Con parole e azioni, tutt’e due insieme, proclamavano il Signore di tutto».

È così particolare di Dio l’agire nel silenzio, che è quanto il diavolo non può comprendere. Sant’Ignazio di Antiochia fa questa dichiarazione: «Il principe di questo mondo ha ignorato la verginità di Maria, il suo parto come anche la morte del Signore: tre misteri di alta voce che furono fatti nel silenzio». Ed Efrem commenta: «Le parole di questo silenzio sono degne di lode».

Scrive Rowan Williams, che nello stile di Dio, il silenzio permette «che ciò che è sia ciò che è» e ricorda: «Esiste un documento cristiano del ii secolo, noto come il Protovangelo di Giacomo, in cui troviamo una descrizione del momento della nascita di Gesù. Giuseppe è uscito a cercare una levatrice, Maria è sempre nella grotta. Mentre Giuseppe cammina nel villaggio, all’improvviso tutto si ferma. Egli stesso racconta di aver visto un pecoraio nel campo mentre intingeva il suo pane nella pentola e la sua mano bloccata a mezza via verso la bocca; un uccello in mezzo al cielo fermato mentre volava. Per un momento tutto rimane immobile, poi i movimenti ricominciano e Giuseppe sa che la nascita è avvenuta in quell’istante di silenzio assoluto».

Il silenzio è costitutivo dello stile di vita del monaco, del modo di vivere, del modo di pensare, del modo di relazionarsi. Questo stile di vita si può riassumere intorno alla parola «sobrietà», nepsis. Per esempio, nello stile di vita di monaci delle prime generazioni non c’è solo una sobrietà di parole nelle relazioni: persino di Dio si deve parlare e discutere poco. I monaci di Solesmes hanno studiato con il computer i detti dei Padri del deserto e sono arrivati ad una costatazione sorprendente: «Di Dio non si parla molto, e neanche di Cristo e della Vergine Maria». Nell’età matura del monaco, le «visioni» sono piuttosto «voci» di incoraggiamento, di consolazione, oppure esortazioni alla vigilanza. Perciò le prime generazioni di monaci non parlano di Dio ma della loro esperienza di Dio che salva, di Cristo che vince, trasmettono cioè la loro esperienza di salvezza per aver «ascoltato la parola» e obbedito. Quel narrare uno all’altro l’esperienza di salvezza genera comunità di credenti, il padre spirituale narrando la salvezza genera un figlio spirituale e insieme generano una comunità che testimonia e glorifica Dio. Il monaco è perciò parola incarnata più che parola pronunciata. Ecco allora un interessante aspetto della vita monastica nelle sue prime generazioni: una preferenza per la via apofatica in teologia. Che significa? La conoscenza di Dio non può identificarsi con i concetti o le immagini, ma raggiunge la sua verità nel silenzio o nell’adorazione.

di Michelina Tenace

venerdì 14 agosto 2020

L'Osservatore Romano: Un grande messaggio per l’umanità

 15 agosto, solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

13 agosto 2020

Le più importanti festività mariane, Immacolata concezione, Annunciazione, Visitazione, Maria madre di Dio, Maria madre della Chiesa, Assunzione, non hanno solo valore liturgico e devozionale, ma soprattutto dinamico in quanto costituiscono fondamentali passaggi dell’umanità in cammino. L’anima contemplativa attratta dalla luce della bellezza creata e increata, orientata verso lo Spirito Santo, vive una costante purificazione e trasformazione che segna importanti tappe nella coscienza. Maria riunifica nella sua persona tutti i tratti del compimento, incarna la pienezza che opera lo Spirito in coloro che si affidano senza riserve. Costituisce il modello del principio femminile cristiano non tanto da imitare attraverso lo sforzo di volontà, ma attraverso l’abbandono, lasciando cioè agire l’azione rigeneratrice che muove lo Spirito.


Lo Spirito Santo attiva nell’anima un processo di purificazione tale da far germinare in essa quelle virtù che in Maria vengono completamente alla luce. Maria incarna un femminile assolutamente recettivo, che non fa alcuna opposizione al fluire della grazia e la grazia che agisce in lei fa fiorire tutte le potenzialità. L’obbedienza, la mitezza, la prudenza, la sapienza, la fortezza, il silenzio, l’aprirsi al mistero, il custodire ecc., sono virtù che germinano naturalmente nell’anima contemplativa purificata dallo Spirito.

Considerare Maria come modello da imitare ne affievolisce la forza dinamica, fa rimanere sul piano devozionale che guarda a lei come a una figura troppo elevata da raggiungere, che la prega affidandosi con cuore sincero, ma che, non focalizzandosi sull’azione spirituale, può anche rischiare di cadere nella superstizione o addirittura nell’idolatria. L’arcangelo Gabriele salutando Maria con l’appellativo di «piena di grazia», vuole dirci che ella vive lo stato di grazia che precede la caduta, però non più nell’innocenza, bensì nella consapevolezza visto che le è chiesta una risposta. Maria incarna l’attesa profetica, la totale fedeltà all’alleanza che supera la frattura dovuta alla disobbedienza. Esprime il punto d’arrivo del lungo cammino del popolo amato per rispondere in pienezza all’amore. In questo stato lo spirito di morte non ha più potere, la vita fluisce senza conoscere frattura. La «piena di grazia» allude proprio al rimarginarsi di questa frattura, alla risalita della natura umana alla condizione originaria. Il Verbo può incarnarsi in Maria perché il suo sì permette allo Spirito Santo di incarnarsi in lei, di manifestare attraverso di lei il volto materno di Dio. La Theotókos, la Madre di Dio, porta alla luce la madre che è in Dio, la potenza generatrice dello Spirito che eternamente genera il Verbo.

Soffermiamoci ora sul dogma dell’Assunzione. Proclamato da Pio XII il 1° novembre 1950 con la Costituzione apostolica Munificentissimus Deus, ratifica quanto la tradizione tramanda fin dai primi secoli e cioè che il corpo di colei che ha portato in grembo e partorito verginalmente il figlio di Dio, non poteva essere sottoposto alla corruzione della morte. «Pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Mentre però per Gesù si festeggia l’Ascensione, per Maria si festeggia l’Assunzione al cielo. Di Gesù è messa in evidenza la natura divina. Egli, essendo disceso dal cielo, poi risale per la potenza intrinseca alla propria natura. Di Maria invece è messa in luce la natura umana. Ella non può ascendere per forza propria, ma è portata in alto per la potenza del Verbo incarnato. La natura divina del Verbo incarnato divinizza la natura umana. Infatti, come è reso particolarmente esplicito dall’iconografia orientale della dormitio, è Gesù che porta in cielo la madre addormentata. Questo mette bene in luce come, la natura umana purificata e ritornata alla luce originaria (Immacolata Concezione), completamente aperta all’azione dello Spirito Santo (Annunciazione) tanto da accogliere in se stessa la generazione divina dando corpo al Verbo (Madre di Dio), dallo stesso Verbo è assunta nella vita divina. Maria è portata in cielo in anima e corpo perché il suo corpo terreno è trasfigurato nel corpo della risurrezione. Il passaggio per lei è lieve. La natura umana in origine porta in se stessa la potenzialità di ascendere, porta potenzialmente in sé la natura divina. Nella genealogia di Gesù che troviamo nel vangelo di Luca è detto che Adamo è «figlio di Dio» (Lc 3, 38). È posta una continuità fra Adamo e Gesù che richiede un lungo processo di crescita. Maria raggiunge il compimento che dà origine alla nuova creazione. La risalita di Maria alla condizione originaria permette al Verbo di discendere e di incarnarsi in lei. È dunque la risalita della natura umana alla purezza originaria che rende possibile l’incarnazione. Allo stesso tempo però il Verbo incarnato assume la natura umana nella natura divina. L’incarnazione opera la piena riunificazione fra natura umana e natura divina. Per questo è detto che Gesù è asceso in cielo mentre di Maria è detto che è assunta. Il Verbo discende e risale. Porta in se stesso questo movimento il cui senso profondo allude al movimento intrinseco della Santissima Trinità. Dio è Uno e Trino, Padre e Figlio, universale e particolare, assoluto e manifestato, invisibile e visibile in quanto la realtà creata è mirabile manifestazione della misteriosa e insondabile bellezza increata. Quando la natura umana si apre per accogliere il Verbo, ossia ritorna all’innocenza originaria, ne assume ogni potenzialità. Per questo Gesù ascende, mentre Maria è assunta. La natura umana riceve questa potenzialità di risalita quando in essa si genera il Verbo. Il Verbo risveglia la natura divina nella natura umana, suscita quel movimento di discesa e di risalita intrinseco alla natura divina. Attrae la natura umana all’interno del movimento d’amore delle divine persone. Assoluto mistero (Padre) e sua manifestazione (Figlio), attraverso la relazione dell’amore puro (Spirito Santo) che eternamente genera amore, sono sempre compresenti e contemporanei e in continua relazione. Maria che è portata in cielo da Gesù fa comprendere dunque che attraverso il Verbo incarnato la natura umana è assunta nella natura divina. L’assunzione rivela che la natura umana può partecipare alla vita della Santissima Trinità, può assumerne il movimento. Risurrezione della carne è dunque l’eskaton a cui tende ogni compimento, la costante tensione che spinge la natura umana a raggiungere la propria pienezza, a vivere il corpo della risurrezione, quella realtà in cui ogni potenzialità umana giunge ad attualizzarsi sul piano spirituale rimanendo indelebile. Salvezza, vita eterna, esprimono l’attivarsi di questa potenzialità che investe universalmente tutto il genere umano.

L’Assunzione al cielo di Maria comporta quindi un grande messaggio per l’umanità, invita a vivere il corpo della risurrezione durante la vita terrena. Questo corpo si sviluppa attraverso l’azione di grazia che opera lo Spirito Santo trasformando la vita psicofisica, purificandola, santificandola. Il corpo fisico non è un corpo estraneo rispetto a quanto contiene nell’interno. Non è, ad esempio, come il vaso di coccio che contiene l’acqua. Secondo l’antropologia biblica corpo fisico, psichico, spirituale costituiscono un tutt’uno, costituiscono l’essere vivente nella sua unità inscindibile. Si potrebbe paragonare ad esempio il corpo fisico alla crosta del pane che contiene e dà forma a tutto l’impasto. Ma nella persona umana niente è statico, bensì sempre in trasformazione proprio per le forze spirituali che lo attraversano. Quindi più si trasforma la parte interna, più si trasforma l’esterno che ne dà la tenuta e ne costituisce la manifestazione esteriore costituita anche da pensieri ed azioni. Il corpo della risurrezione sorge pian piano dal corpo psicofisico via via che lo Spirito Santo purifica l’anima. Più l’anima si illumina, più si rarefanno in essa le ombre e si sciolgono i nodi degli attaccamenti che la legano. Allo stesso tempo sono alleviate le malattie del corpo il quale lentamente riscopre la bellezza della propria creaturalità. Il corpo della risurrezione inizia a vivere via via che lo Spirito Santo santifica il corpo psicofisico. Nei santi il corpo della risurrezione prende sempre più campo nel corpo psicofisico fino a che, come in Maria, non fa più alcuna resistenza al Verbo incarnandolo. Allora il Verbo incarnato assume completamente in se stesso il corpo psicofisico. Il passaggio dallo spazio/tempo all’eterno è lieve dove la natura umana è risvegliata dal Verbo alla natura divina.

di Antonella Lumini


giovedì 6 agosto 2020

SettimanaNews: I giovani li abbiamo persi da tempo

 05/08/2020 Giuseppe Savagnone

La lettera nella quale la Presidenza della CEI ha invitato i vescovi italiani a «porre le condizioni con cui aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale», in vista della ripartenza autunnale, non è casuale. Essa nasce da una preoccupazione, neppure troppo velata, di fronte alla constatazione che, dopo il lockdown, il ritorno alla celebrazione dell’eucaristia con il popolo è stato «segnato anche da un certo smarrimento (in particolare, una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi), che richiede di essere ascoltato».

Dopo le accese proteste, soprattutto di quella parte del mondo cattolico più attaccata ai riti e alle devozioni, contro la sospensione della celebrazione delle liturgie eucaristiche; dopo che la stessa Presidenza CEI aveva reagito con durezza contro il protrarsi di questa sospensione, arrivando a prospettare una violazione del diritto di libertà religiosa; dopo che si erano studiate minuziosamente le misure per conciliare la tutela della salute e il corretto svolgimento delle funzioni – dopo tutto questo, sembra che le chiese, ora che sono state riaperte, restino mezze vuote, perché molti – soprattutto i giovani – continuano a disertarle.

L’urgenza dell’ascolto
Possibile che un’interruzione di poche settimane abbia sviato i fedeli dalla frequenza domenicale, ancora così radicata nel costume? O forse, più sottilmente, sono stati i vantaggi di una partecipazione virtuale a indurre molti a continuare a seguire la messa in Tv? Solo che, in questo modo, l’assemblea liturgica perderebbe istituzionalmente – e non solo per l’emergenza del lockdown – la sua ricchezza umana integrale, che comporta anche la dimensione fisica, e soprattutto il riferimento al banchetto eucaristico, in cui i fedeli si nutrono, del corpo e del sangue di Cristo, «vero cibo e vera bevanda».

Si capisce l’inquietudine della Presidenza CEI, anche in riferimento a una ripresa che, in autunno, dovrebbe confrontarsi col problema della presenza fisica dei ragazzi nelle classi di catechismo e negli oratori.

È significativo, tuttavia, che la lettera accenni quasi di sfuggita alle difficoltà, insistendo piuttosto sulla necessità, da parte delle nostre comunità, di «aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale». Segno di una consapevolezza che il problema è più profondo del mancato ritorno in chiesa ed esige non tanto delle sterili recriminazioni, quanto un “ascolto” intelligente di ciò che sta accadendo nella nostra società.

La crisi c’era già prima del lockdown
In verità, dei germi di crisi erano già abbastanza evidenti anche prima del coronavirus. I giovani di cui oggi viene notata l’assenza erano a loro volta i superstiti di generazioni che da tempo, ormai, avevano abbandonato la pratica religiosa. Dalle più recenti inchieste risulta che oggi, in Italia, quasi metà dei giovani dai 18 ai 29 anni non credono in Dio, o perché pensano che non esista, o perché sono del tutto indifferenti al problema, o perché ci credono a intermittenza, qualche volta sì qualche volta no, o perché, pur ammettendo l’esistenza di una forza superiore, escludono che sia Dio. Colpisce l’accelerazione impressionante del fenomeno se si pensa che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli atei erano tra il 10 e il 15% della popolazione giovanile.

Fa riflettere il fatto che l’80% dei giovani “non credenti” sia passato per il battesimo e la prima comunione, circa i due terzi per la cresima. I tre quarti hanno frequentato il catechismo. Sono perciò giovani che hanno abbandonato dopo l’iniziazione cristiana. È il fallimento del catechismo come viene praticato quasi ovunque. La grande fuga dei ragazzi si verifica di solito a conclusione di esso, come se i sacramenti che dovrebbero introdurli nella pienezza della vita cristiana fossero invece quelli del congedo da essa e dalla Chiesa.

Il tempo del coronavirus ha dunque solo evidenziato una crisi su cui forse si erano troppo a lungo chiusi gli occhi. Ma, se è vero che esso mette in risalto i segni di un tramonto, c’è da chiedersi se non mostri, al tempo stesso, alcuni elementi che potrebbero favorire un nuovo inizio, consentendo il superamento di alcuni schemi che ingabbiavano la pastorale, soprattutto giovanile.


La terra di mezzo
Proprio la crisi della pratica religiosa tradizionale, quella che si svolge tra le mura dei templi, rimette in discussione uno di questi schemi, secondo cui si consideravano “veri cristiani” solo i cattolici “praticanti”, e “praticanti” solo quelli che andavano in chiesa la domenica. Il confinamento ci ha costretti a relativizzare, insieme al luogo fisico, le mura di divisione che separavano nettamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Nello spazio della rete tutti sono in grado di collegarsi a tutti e di partecipare anche se non l’avevano mai fatto. I confini sono saltati.

Ma non è questa anche una potente metafora di uno stile ecclesiale diverso, dove “cattolico” torni a significare un’apertura illimitata alla totalità dei valori umani, e quindi a tutti coloro che, anche per vie diverse da quelle dell’ortodossia ecclesiale, sono alla ricerca di un senso della vita?

Non per nulla sono i giovani i più capaci di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione. Lo spazio senza barriere della rete esprime bene la loro condizione, che non è quella di chi sta “dentro” la Chiesa, ma neppure quella di chi sta “fuori”. Più che di atei e di credenti bisognerebbe, perciò, parlare di giovani che abitano quella che un sociologo, Alessandro Castegnaro, ha definito una «terra di mezzo» tra credenza e incredulità e che, se non vanno in chiesa, non è perché abbiano definitivamente rifiutato la fede, ma perché non riescono più a riconoscersi nel modo tradizionale di proporla.

Certo, guardando questi giovani ci si potrebbe chiedere: «Che cosa cercano? Cercano Dio?». In realtà, come scrive Castegnaro, «cercano innanzi tutto se stessi, cercano di non perdersi, cercano di ritrovarsi (…). Ma cercare se stessi non ha proprio niente a che fare con la ricerca di Dio?».

Ad essi può rispondere solo una Chiesa capace di accoglierli con le loro inquietudini, una Chiesa che apra lo spazio per «portare avanti le proprie esplorazioni, condurre incursioni, fare esperienze a partire dal bisogno di comprendere se stessi e dalla personale ricerca di senso».

Una partecipazione senza appartenenza
Questi giovani hanno bisogno di una partecipazione senza appartenenze rigide, di una proposta fatta in un linguaggio nuovo, non “ecclesiastico” che, invece di riflettere certezze già precostituite, si sforzi di esprimere la complessità della vita e sia per questo comprensibile a tutti.

Non è il linguaggio che il coronavirus ci ha costretti a usare, in una liturgia del quotidiano che si è svolta tra casa nostra – luogo di condivisione, a volte faticosa, tra diversi, alle prese con le incombenze e le necessità della vita familiare – e le piattaforme del web, aperte senza limiti al mondo? Perché non imparare da questa esperienza un approccio non “sacrale”, meno che mai “clericale”, alla nostra fede, valorizzando la sua portata pienamente umana?

Una nota teologa, Serena Noceti, segnalava a questo proposito l’attualità della tradizione sapienziale, che attraversa tutta la sacra Scrittura. Mentre la Torah, la Legge, enuncia le richieste di JHWH al suo popolo e i libri profetici fanno percepire l’irruzione bruciante della Trascendenza nella nostra storia, i libri sapienziali insegnano a leggere la presenza di Dio nelle vicende della vita e della morte.

Sono i libri della riflessione sul quotidiano – Proverbi, Sapienza, Siracide –, ma anche i più drammatici della Bibbia – Qohelet, Giobbe. Qui non si parte dalle certezze, ma dalle domande – non quelle del catechismo, confezionate in vista delle risposte –; non dalla fede, ma dal grido che, come scrive Recalcati, è «il luogo primario dell’umanizzazione della vita». «Ma cos’è un grido? Nell’umano esprime l’esigenza della vita di entrare nell’ordine del senso, esprime la vita come appello rivolto all’Altro. Il grido cerca nella solitudine della notte una risposta nell’Altro. In questo senso, ancora prima di imparare a pregare e ancora di più nel tempo in cui pregare non è più come respirare, noi siamo una preghiera rivolta all’Altro».


Accogliamo i “gridi perduti nella notte”
Forse da qui bisogna ripartire, con i giovani ma anche con gli adulti, ricordando che le nostre certezze di fede, se sono autentiche, non sono ereditarie, ma hanno richiesto una conquista: «Siamo stati tutti dei gridi perduti nella notte». Lasciamo entrare nelle nostre riunioni gli abitanti della “terra di mezzo” senza chiedere loro il passaporto. Anzi, rendendo queste riunioni, anche quando potranno essere fatte in presenza, fluide e accessibili come lo sono state le liturgie della rete (alle messe del papa, durante il lockdown, partecipavano tanti che in chiesa non andrebbero mai!).

Il coronavirus ci ha messo alla prova e forse sta accelerando la fine non solo di una società, ma anche di un certo modo di vivere la Chiesa. Ma noi, i cristiani, non dobbiamo aver paura del rinnovamento. Ciò che muore apre la strada a ciò che sta nascendo. E noi crediamo di dover avere un ruolo, con la nostra inventiva e i nostri poveri sforzi, nell’adempimento della promessa che sta a conclusione della sacra Scrittura: «E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5).

- Articolo ripreso dal sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo Tuttavia.