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sabato 30 maggio 2020

SettimanaNews: Pentecoste: Lo Spirito ci raduna e ci fa nuovi nel perdono

di: Nico Guerini

È certo la più vistosa, e la più nota, ma quella che celebriamo oggi è la terza pentecoste che è, comunque, nella linea delle due che l’hanno preceduta.

La prima fu sul Calvario, quando Cristo, nel momento stesso in cui moriva, non si spegneva del tutto, perché, come dice Giovanni, morendo «consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), come alla cena aveva dato/consegnato il suo corpo (Lc 22,19).

La seconda pentecoste avviene nella cornice domestica del cenacolo, ed è primariamente diretta agli apostoli impauriti e smarriti (Gv 20,22), quando Gesù “soffia” su di loro portando pace e perdono.

La terza effusione dello Spirito assume toni giganteschi e spettacolari: un fragore di tuono, un vento impetuoso, lingue di fuoco che si posano su ciascuno dei presenti, riuniti «nella stanza del piano superiore dove erano soliti riunirsi» (At 1,13), e dove era stato vissuto l’ultimo incontro con Gesù attorno a una mensa.

Ognuna di queste tre effusioni dello Spirito prende senso perché ognuna contiene un messaggio che fa parte del dipanarsi di un “mistero” che va caricandosi di volta in volta di significato. La Pentecoste del Calvario ci indica la “fonte”: il dono dello Spirito nasce dalla morte di Gesù, una morte che, essendo il punto massimo di una rivelazione dell’amore, è in realtà una manifestazione di vita, come la successiva risurrezione si incaricherà di dimostrare in modo inequivocabile.

La Pentecoste del Cenacolo mira a trasmettere in diretta a una piccola comunità, dove ancora serpeggia il dubbio, e forse anche un senso di vergogna per aver abbandonato Gesù nell’ora più buia della sua vita, il dono della pace e del perdono, di cui i discepoli, “perdonati”, sono chiamati ad essere loro stessi gli agenti della misericordia: è una potente iniezione di fiducia che li prepara alla terza, e grande Pentecoste, che li farà uscire delle “porte chiuse” per lanciarli sulle strade del mondo.

La Pentecoste è anzitutto una festa liturgica ebraica. Nata come festa della mietitura (Es 23,14), era poi divenuta anche commemorazione e rinnovo dell’alleanza (2Cr 15,10-13). Non è dunque una circostanza qualsiasi, e proprio questa ricorrenza spiega la presenza a Gerusalemme di rappresentanti di tutto il mondo allora conosciuto.

Il vento che è lo Spirito
Luca (At 2,1-11) ha certo tenuto presente queste due circostanze per orchestrare questa grande manifestazione dello Spirito, che si rivela come il “donatore” per eccellenza, del raccolto così come dell’alleanza, che ora è “nuova” nel senso che ingloba ed eleva la precedente, perché questa volta è sigillata non da un segno fisico sul corpo, ma dal dono di sé che fa Gesù, quando nell’ultima cena passò il calice agli apostoli dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22,20).

Il vento “riempie” la casa, quel vento che è l’immagine stessa dello Spirito (Gv 3,8), vento che è “fiato” (nel greco la parola è la stessa), che è sinonimo di libertà, che è l’espressione stessa dell’azione di Dio, non controllabile né riducibile a schemi (Gv 3,8), ma semplicemente da accogliere con gioia e gratitudine, quel vento che visualizza la “danza” di Dio nel creato (Pr 8,30-31), che gonfia le vele ai naviganti, che è icona potente della vita.

E qui la vita finisce per concentrarsi sulla parola, che è lo strumento primo della vita di relazione, quella parola che nell’orgoglio di Babele era stata maledetta e fatta fonte di confusione (Gen 1,11), ora viene purificata dal fuoco e benedetta così da diventare strumento di comunione.

L’immagine creata da quel grande pittore che è Luca è impressionante: l’atlante della baraonda e delle guerre si trasfigura in atlante di una variopinta diversità che però si ritrova in un’unica lingua. C’è davvero da essere «stupiti e fuori di sé per la meraviglia».

C’è solo un’ultima annotazione da fare: certo, parlano una lingua che tutti capiscono, ma di che cosa parlano? «Delle grandi opere di Dio»! Non viene precisato altro. Saranno poi i lunghi discorsi di Pietro, di Stefano, di Filippo, e alla fine di Paolo, a specificare quali siano queste “grandi opere”. Per ora basta sottolineare che lo strumento funziona, che la Chiesa nata da Gesù è per il mondo, e dunque che sono sue tutte le lingue – e le culture – del mondo.

La molteplicità nell’unità
La varietà nell’unità diventa un grande inno nella seconda lettura (1Cor 12,3b.7.12-13). È la grande metafora della comunità dei discepoli che è descritta, via via, come edificio basato su una pietra angolare, come tralci che derivano da un’unica vite, come membra numerose e diverse che si radunano sotto un unico capo.

La lettura che ne dà Paolo ha il pregio di essere ricondotta alla Trinità. Dio Padre è il “creatore”, e da lui si diramano le “attività”; Dio Figlio è colui che è venuto a “servire”, e da lui partono e a lui si ispirano i “ministeri”; Dio Spirito Santo è “dono”, e a lui vanno ricondotti i diversi “carismi”, parola di origine greca (derivata da charis, grazia, da cui charitas, “amore”). Una è dunque l’origine, uno è, e altro non può essere, l’obiettivo: l’utilità comune!

Curioso che nel latino della Volgata, che rende alla lettera il greco originale, quello che qui è tradotto “diverso” suona divisio. È chiaro però che, nel contesto, diversità e/o varietà tutto possono essere tranne che sinonimi di “divisione” nel senso di contrasto e di conflitto. Paolo aveva fatto l’esperienza dolorosa a Corinto di una Chiesa che si divideva in fazioni facendo appello all’uno o all’altro degli evangelizzatori (cf. 1Cor 3,1-9). Si spiega anche così la sua appassionata difesa dell’armonia che ci deve essere tra unità e diversità. E a dare vigore alla proposta viene alla fine la metafora madre del corpo, nel quale siamo immessi con il battesimo, un corpo che respira con un solo fiato, lo Spirito, appunto.

La liturgia del medioevo, oltre a una miniera splendida di inni, ci ha lasciato molte “sequenze”, che la riforma tridentina ha ridotto drasticamente. Di tale patrimonio sono rimaste nel messale due sequenze stupende: il Victimae paschali laudes per Pasqua, e il Veni Sancte Spiritus per la Pentecoste, oltre a inni come lo Stabat Mater, il Dies irae e il Lauda Sion.

La sequenza di oggi, opera dell’inglese Stephen Langton (ca. 1150-1228), grande teologo e arcivescovo di Canterbury, accompagnata da una struggente melodia gregoriana, si trova facilmente anche in italiano in pratiche immaginette. È una bellissima preghiera del mattino: perché non regalarla alla cresima?

“Ricevete lo Spirito Santo”
Con il Vangelo (Gv 20,19-23) torniamo alla seconda Pentecoste, quella che ho chiamato “domestica”, che vede il Risorto superare liberamente le “porte chiuse”, ed entrare per “stare in mezzo” ai discepoli e donare loro la sua pace. Mostra loro “le mani e il fianco”, ormai inconfondibile carta di identità, e insieme ricordo di come è arrivato ad essere il “Signore”. Le ferite hanno un linguaggio: sono delle aperture, o che lasciano uscire la misericordia (quelle delle mani), o che lasciano entrare nella propria intimità (quella del costato).

Ho già citato Giuliana di Norwich, una delle antesignane di quella che poi sarà la devozione al sacro Cuore, che nella ferita del costato vede la “porta” che immette in un nuovo Eden, «un luogo bello e delizioso, largo abbastanza da contenere tutta l’umanità salvata perché vi riposasse nella pace e nell’amore» (Una rivelazione dell’amore, c. 24, p. 188).

Ma merita la citazione un altro passo, dove la mistica sviluppa l’idea della “maternità” di Dio che si rivela particolarmente nel Figlio, e dove scrive: «Una madre può teneramente stringere al petto il suo bambino, ma la nostra tenera Madre Gesù può familiarmente farci entrare nel suo petto benedetto attraverso la dolce ferita del suo costato, e qui rivelarci in parte la divinità e le gioie del cielo insieme alla certezza spirituale della felicità eterna» (c. 60, p. 276).

E, quanto alle mani, ecco cosa la stessa scrive: «Le beate ferite del nostro salvatore sono aperte, ed è loro gioia il sanarci. Le dolci mani graziose della nostra Madre sono pronte e diligenti nel curarsi di noi. Perché lui in tutto questo lavoro esercita proprio l’ufficio di una gentile nutrice che non ha altro da fare se non occuparsi della salvezza del suo bambino» (ibidem, c. 61, p. 280-281).

Dopo il rinnovato augurio di pace, viene l’invio in missione basato sul “come”: la Pentecoste, meglio, l’invio dello Spirito ha come scopo di agganciare la nostra vita a quella di Gesù, e dunque il compito di continuare la sua missione. Che è sostanzialmente quella di gestire il perdono di Dio, materializzatosi nel sacrificio di Gesù, che da ingiustizia perpetrata a causa nostra diventa fonte di grazia a favore nostro: sono i due significati di propter, che sono raccolti nel «propter nos homines et propter nostram salutem» del Credo.

Perdonare e non perdonare parrebbero a tutta prima scelte che dipendono da noi e sono totalmente nelle nostre mani. Non è così. Pur rimanendo a volte utile aiutare un peccatore, ove sia il caso, a rendersi conto dei suoi sbagli, rimane sempre fondamentale ricordarsi che le nostre mani devono muoversi in sintonia con quelle di Dio, e che, nel perdonare, diamo solo alla fine quello che noi per primi abbiamo ricevuto.

Vorrei concludere con un brano poetico, un inno composto da fr. Pierre-Yves Emery, di Taizé. Lo Spirito Santo rimane la più enigmatica delle tre persone della Trinità: non è facile parlarne. Lo vedo un po’ come la “poesia” che fluisce tra il Padre e il Figlio, o meglio, per dirla con san Bernardo, il “bacio” che lega il Padre al Figlio (Sul Cantico, Sermone 8,2). Mi hanno sempre aiutato le grandi metafore con cui la sua presenza è suggerita nella Bibbia: il vento, l’acqua, il fuoco.

Così scrive Pierre-Yves:

«Spirito di Dio, tu sei il fuoco, / brace paziente nella cenere, / pronta a sorprendere in ogni istante / il minimo soffio ed a saltare / come un lampo vivo e gioioso / per consumare in noi la paglia, / provare l’oro alla gran fiamma / del braciere della carità. //

Spirito di Dio, tu sei il vento, / dove tu prendi il fiato, a quale riva? / Elia si copre il volto / davanti al tuo silenzio che freme. / Sei dato ai tempi nuovi, / sospiro del mondo in speranza, / presente ovunque come danza, / esplosione della tua libertà. //

Spirito di Dio, sei rugiada / di gioia, di forza e tenerezza, / tu sei la pioggia della promessa / su di una terra abbandonata. / Zampillata dal Figlio risorto, / tu ci rianimi, sorgente chiara, / ci riconduci verso il Padre, / alla roccia della verità» (La nuit, le jour… Hymnes et tropaires, Desclée/Cerf, 1973-74, p. 104).

Quando il linguaggio del ragionamento viene meno, e quello della narrazione non è sufficiente, perché non dovremmo riuscire a diventare anche noi, come al mattino di Pentecoste, un po’ “ubriachi” di bellezza e di poesia?

giovedì 21 maggio 2020

SettimanaNews: Covid-19: le risposte della teologia

20 maggio 2020
di: Lluís Oviedo Torró

Scrivo questo articolo dopo due settimane di isolamento obbligato e nel mezzo di una delle peggiori crisi sanitarie, sociali ed economiche vissute dal nostro mondo negli ultimi decenni o almeno nelle società occidentali benestanti, in cui non abbiamo sofferto esperienze così negative forse dal difficile periodo delle guerre della metà del secolo XX.

Questa situazione invita a una riflessione e ad una analisi, anche se alcuni dicono che riguarda il dopo e che ora ci sono delle cose più urgenti. Tuttavia, riflettere “a caldo” può essere un esercizio utile e necessario in tempi difficili.

Qual è il compito della teologia
In questo momento si pone la domanda non retorica sul contributo che la teologia può apportare, se può offrire qualcosa, se questo esercizio riflessivo basato sulla fede non sia più un lusso, qualcosa di superfluo davanti a compiti più urgenti. Almeno, la fede cristiana e le sue pratiche possono risultare utili e necessarie per molti, per coloro che invocano il nome di Dio e di Maria e cercano aiuto e speranza.

Una prima risposta si intuisce dalla percezione dell’idoneità della fede in questo contesto: se la fede cristiana, e in generale le fedi religiose, hanno un significato e un ruolo importante in questi tempi difficili, allora anche la teologia continua ad essere necessaria e importante per orientare e incoraggiare gli sforzi di tutti nel fronteggiare la crisi che stiamo vivendo.

Questa è una delle situazioni che pongono un test alla fede e alla teologia, vale a dire che presentano delle condizioni davanti alle quali le Chiese e la riflessione cristiana devono rispondere in maniera efficace, altrimenti perderanno molta credibilità. Se la fede non è all’altezza delle circostanze per trasmettere speranza, conforto e incoraggiamenti in questi momenti speciali, allora rimane delegittimata. Qualcosa del genere avviene con la teologia: se non è in grado di fornire un’analisi e un discorso che possa interpretare e dare significato a questi “segni dei tempi”, allora diventa una riflessione sterile e inutile.

La crisi di prestigio della teologia viene alquanto da lontano: è stata favorita sia dalla critica e dalla svalutazione da parte dei discorsi scientifici e accademici più riconosciuti e intellettualmente brillanti, sia dalla sfiducia in ampi circoli cattolici che non capivano questo sforzo intellettuale. In parte fu colpa degli stessi teologi e della loro incapacità ad affrontare i problemi più seri che la fede viveva, offrendo diagnosi corrette e risposte o proposte per superare le situazioni più critiche.

La teologia in generale è rimasta chiusa in se stessa ed è diventata un esercizio autoreferenziale, con poco contatto con la realtà concreta e con i problemi della gente, e più ancora con quelli dei credenti. Infatti, dove stava la teologia mentre si svuotavano le chiese e si perdeva completamente la fiducia nella Chiesa? Dov’era durante la grave crisi degli abusi sessuali che hanno scosso molti ambienti cattolici?

Non possiamo sbagliare adesso; non mi piacerebbe se si chiedesse dove stava la teologia e dov’erano i teologi durante la pandemia, quando tutta la gente era in isolamento, i cristiani non potevano celebrare i sacramenti e molti erano in preda allo smarrimento.

La teologia ha davanti a sé la sfida di diventare un discorso molto più attento ai segni dei tempi e al loro contesto per fornire delle analisi che aiutino a comprendere situazioni difficili come quelle che stiamo attraversando, e per orientare le coscienze di fronte alla grande incertezza che stiamo vivendo.

Ora più che mai è necessario “rendere ragione della nostra speranza”.

Queste pagine si propongono di descrivere l’impegno della teologia nei riguardi della società e della Chiesa per fornire una riflessione ispirata alla Rivelazione cristiana e alla lunga esperienza di studio accumulata lungo molti secoli. Questa non è la prima volta che la teologia deve fare i conti con una grande epidemia o pestilenza o altre calamità che periodicamente affliggono l’umanità e ci interpellano sul nostro destino e sull’agire di Dio in un mondo che non controlliamo.

A questo riguardo propongo quattro chiavi o modelli che hanno aiutato e possono continuare ad aiutare a dare un significato a questa crisi che attraversiamo e proporre un insieme di opzioni affinché i credenti possano scegliere quella, o quelle, che trovano più adeguate o che facilitino la loro ricerca di significato.

Io intendo il compito della teologia in questo momento come una riflessione che aiuta i nostri contemporanei a dare un senso a ciò che avviene a partire dal riferimento a un Dio che ci salva. Queste chiavi sono, per seguire un certo ordine: in primo luogo, quella apocalittica che anticipa una finale attraverso catastrofi; la seconda, l’invito alla conversione a partire da segni efficaci; la terza, quella pasquale o del sacrificio che dà vita al di là della morte; e la quarta, quella dell’incarnazione o dell’accompagnamento delle sofferenze e delle speranze umane. Presenterò in ciò che segue un’analisi non esaustiva di queste chiavi applicandole a questa situazione concreta.

La chiave apocalittica
Senza dubbio questa è la chiave più immediata e probabilmente la più utilizzata da molti secoli in occasione di altri episodi di peste o di grandi calamità. Difatti è la più giustificata nei testi del Nuovo Testamento ed è facile da applicare in momenti di grande difficoltà.

A grandi tratti, la mentalità apocalittica intende la storia come un processo di decadenza; anche se in apparenza si registrano dei progressi, in realtà le cose peggiorano, la società e la cultura si allontanano sempre più da Dio, aumentano il peccato e la corruzione, e la fede progressivamente si spegne; solo pochi resistono, tra l’incomprensione generale e persino nella persecuzione.

Tutto indica, quindi, in un ambiente apparentemente tranquillo e soddisfatto. una profonda distorsione delle menti e dei cuori degli abitanti di questo mondo, che si sono allontanati da una vita virtuosa vissuta nella fedeltà alla volontà divina. Davanti a questo panorama non resta altra scelta che confidare in un cambiamento radicale che tocchi i cuori di tutti.

Lo scenario apocalittico attira l’attenzione sulla catastrofe, la grande crisi che anticipa la fine dei tempi e una grande rigenerazione finale. Appaiono, è chiaro, i temi del castigo e della correzione divina, temi che riecheggiano episodi dell’Antico Testamento, e una mentalità giustizialista, nel senso che Dio presenta il conto per le colpe e i delitti già in questa vita, nella condizione storica, oppure attende i tempi finali per fare giustizia ai suoi eletti. Questa chiave è stata in effetti ripetutamente applicata nel corso della storia e in mezzo ai grandi mali che l’umanità ha sofferto, e particolarmente le comunità cristiane.

È fin troppo facile comprendere in chiave di castigo e di purificazione l’ambiente che abbiamo vissuto fino a poco fa nelle società occidentali: troppa frivolezza, troppa corruzione a molti livelli o in molti ambiti – compreso quello ecclesiale –, troppo allontanamento da Dio e dalla sua Chiesa. Non è strano pertanto che Dio si sia stancato di questa umanità, che la sua ira esploda e ci corregga con un’epidemia che obbliga a ripensare tutte le certezze che avevamo acquisito, a riconoscere tutti gli errori di questi anni e a tornare a Lui.

La psicologia cognitiva applicata allo studio della religione indica che certe reazioni o percezioni più immediate nel campo religioso seguono delle linee più dirette o “facili”: si tratta di comprendere Dio come “uno che agisce” dietro a tutto ciò che accade e non c’è una spiegazione più convincente, e la nostra relazione con Lui in termini di scambio, di premio o di castigo, come conseguenza del nostro comportamento. L’intuizione religiosa si sente più a suo agio applicando queste categorie ed è più facile interpretare ciò che avviene come castigo divino per i peccati della gente che non cercando altre spiegazioni più complicate e sottili, più teologicamente elaborate.

In tutti i modi, non è il caso di sottovalutare la prospettiva apocalittica, che è stata fonte di speranza e motivo di coraggio per molte generazioni di cristiani e che rivendica giustizia per le vittime e per gli innocenti in una storia piena di sofferenza e di ingiustizia.

Questa visione contribuisce a relativizzare il presente, la storia in tutto ciò che può essere ritenuto grande o prezioso: tutto viene ridotto – eccetto l’amore e la fedeltà – quando si anticipa la fine dei tempi, quando l’unico che conta è il Dio che si affaccia al termine della strada e ci incoraggia ad avvicinarci a lui.

Di conseguenza, non sarebbe consigliabile scartare questa grande visione con tutto ciò che comporta per incoraggiare i credenti e anche in connessione con la chiave successiva che intende tutto questo come un segno che richiede la conversione.

Lo scenario apocalittico invita ad anticipare un futuro finale di consumazione che, anche se non avviene immediatamente, contribuisce tuttavia a illuminare la vita dei cristiani nei momenti di forte prova e a fornire la risorsa più necessaria: la speranza per coloro che confidano in Dio.


Un segno che invita alla conversione
Anche questa è una chiave fortemente radicata nella Rivelazione biblica, in cui molti momenti di grande difficoltà sono percepiti non tanto come castighi ma come segni che invitano alla conversione, a un cambiamento radicale di prospettiva e a un comportamento diverso. Questa linea di lettura si trova spesso nei profeti dell’Antico Testamento, ma è anche una chiave presente nei Vangeli che, di fronte a varie difficoltà, invitano alla conversione e alla sequela di Cristo.

È piuttosto evidente che la tradizione cristiana ha inteso ripetutamente le grandi prove storiche che la Chiesa o la società hanno sofferto come inviti a rivedere comportamenti tranquillamente accettati e radicati, per volgere lo sguardo a Dio e cambiare idee e atteggiamenti fino a poco prima scontati.

La pandemia ci offre un’occasione unica per mettere in atto una riflessione urgente di fronte alla deriva dubbiosa che stava assumendo il mondo occidentale. Dal punto di vista della psicologia cognitiva, il tema è chiaro: quando le cose si mettono male, sorge spontaneo l’interrogativo: in che cosa abbiamo sbagliato? che abbiamo fatto di male per meritare questo?

Certamente una mentalità del genere può essere ritenuta ingenua o il frutto di una mente che ha bisogno di identificare i colpevoli o i protagonisti del male, anche davanti a processi naturali la cui colpevolezza non può essere attribuita in maniera immediata. Di qui l’abbondanza e la popolarità delle teorie cospirative.

La visione teologica deve essere molto più sottile e non cadere in uno schema cognitivo troppo rozzo o ingenuo. Non cerca i colpevoli e non è questa la natura del “segno di conversione” ma un’opportunità che può comportare una determinata crisi o un male storico per cambiare o migliorare, ciò che per noi implica tornare a Dio, accogliere la sua parola; in altri termini, qual è il vantaggio o il beneficio, la lezione che possiamo ricavare da qualcosa di tanto negativo.

Non mancano certo ragioni, quando si guarda in maniera critica la nostra cultura, per trovare processi o atteggiamenti che venivano accettati in maniera pacifica e che richiedono invece una conversione. C’è molto da scegliere, tuttavia uno sguardo teologico dovrebbe segnalare i motivi che destano le maggiori preoccupazioni.

Dal mio punto di vista, la cultura recente era entrata in una fase di fiducia esagerata nelle capacità umane, basata sui mezzi tecnici, come l’intelligenza artificiale per superare tutti i nostri limiti, risolvere tutti i problemi che si ponevano e perfino raggiungere l’immortalità. Ho letto in questi ultimi anni molti libri che descrivevano grandi aspettative fondate sulla capacità scientifico-tecnica di migliorare il mondo, di raggiungere la perfezione. I sogni dell’illuminismo diventavano alla fine realtà, e l’umanità era in grado di superare i suoi mali, perfino i suoi livelli di male morale, cosa che renderebbe molto più accessibile la piena felicità.

Queste vedute grandiose hanno avuto come conseguenza un’emarginazione sempre più accentuata della fede religiosa e del cristianesimo in particolare come religione di salvezza. Non avremmo cioè bisogno di una salvezza da parte di istanze soprannaturali se potessimo raggiungerla con i nostri stessi mezzi. Si stava impossessando di alcuni settori intellettuali quasi un sentimento di onnipotenza e un autore di grande successo ha persino osato parlare di Homo Deus (Yuval N. Harari, 2017).

Tutta questa illusione di grandezza, di divinizzazione assurda è svanita in pochi giorni, e ha lasciato il posto a un senso di grande fragilità, all’idea che la grande civiltà occidentale ha i piedi di argilla ed è molto vulnerabile davanti a qualsiasi frangente, ad un imprevisto, poiché non abbiamo in assoluto il controllo della situazione per quanto progrediscano la nostra scienza e le nostre tecnologie, certamente necessarie.

Mi viene in mente un altro fatto storico degli inizi del secolo scorso che si tradusse in una grande reazione teologica e in un forte cambiamento sociale e religioso. Mi riferisco alla ricezione della Grande Guerra (1914-1918) da parte di un gruppo di giovani teologi con a capo Karl Barth. Non è difficile rintracciare in quella reazione teologica temi che possono esserci familiari.

Il giovane Barth scrisse il suo famoso commento alla Lettera ai Romani proprio alla fine di quella guerra catastrofica (1919) che portò via milioni di giovani vite, come un atto di protesta contro la fiducia che ispiravano i progressi sociali, economici e scientifici della cosiddetta “cultura liberale” e la compiacenza che mostrava una parte della teologia accademica del suo tempo verso queste tendenze e verso una cultura fiduciosa nel progresso umano.

Quel caso ci indica probabilmente come la teologia colse in quella situazione così drammatica un’occasione per ripensare non solo un modello tecnologico, ma un’intera cultura troppo sicura di sé, che si allontanava anche da Dio. Ci voleva una correzione epocale, una rivendicazione della fede cristiana in termini radicali e dirompenti.

È certo che le grandi difficoltà e prove storiche hanno ravvivato la fede di tante persone e anche in questo tempo molti nostri contemporanei stanno volgendo lo sguardo a Dio, pregano più intensamente e cercano di incoraggiare tutti con la loro fede e speranza. In questa ottica non possiamo comprendere l’attuale crisi come un castigo di Dio, ma come un’opportunità per tornare a Lui, per cambiare la nostra vita attribuendo più spazio a ciò che veramente conta e lasciando da parte i falsi idoli che hanno potuto sedurre in questi tempi con le loro promesse di vita felice e persino di immortalità.

È troppo facile trovare risonanze bibliche in questa prova, ma è più adeguato – teologicamente parlando – cercare ragioni per superare ciò che sta accadendo, che permettano di correggere tendenze sbagliate e offrire motivi di speranza basati su Cristo e sulla sua grazia.

Un altro tema che si aggiunge a quello della conversione lo si deduce dalla situazione obbligata di isolamento che tutti viviamo. Questa esperienza ha dato luogo ad atteggiamenti di austerità, ad una visione di essenzialità che invita a dare importanza alle cose che più contano e a lasciar da parte ciò che è secondario. Forse è un’occasione importante per discernere tra i valori che danno più significato alla nostra vita e ciò che è accessorio: a valorizzare la vita di famiglia e l’amicizia, al di sopra di altre realtà che in questi giorni diventano accidentali e remote.

La chiave pasquale: morte e risurrezione
Il terzo motivo più rilevante nel tentativo di illuminare gli avvenimenti che viviamo in questi giorni è quello pasquale. Questa chiave, a differenza delle due precedenti, non è tanto intuitiva o, in altre parole, è – cognitivamente parlando – più “faticosa” o meno “facile” da percepire. La dinamica che inaugura la pasqua di Cristo è, come piace dire ad alcuni psicologi cognitivi, piuttosto “controintuitiva”: la morte è condizione della vita; l’abbassamento e l’umiliazione sono condizioni dell’esaltazione e della gloria; la sofferenza è la via che conduce alla felicità piena; la tristezza lo è a sua volta della gioia. Queste sono categorie pienamente cristiane, ed è difficile trovare parallelismi o similitudini in altre istanze culturali o religiose; ci troviamo davanti ad un punto genuino o specifico della fede cristiana che ora è messo alla prova.

L’applicazione del principio pasquale è molto familiare ai cristiani: il passaggio dalla morte in croce alla risurrezione di Cristo ci invita a pensare che anche i momenti più negativi dell’esistenza personale e collettiva possono dischiudere a una vita nuova, persino oltre la morte.

Questo principio può essere inteso in varie maniere. La chiave escatologica è la prima: in senso cristiano, la morte fisica apre ad una vita nuova che anticipa la risurrezione di Cristo, ma è riservata a tutti coloro che lo seguono. Naturalmente questa chiave risulta un po’ limitata, anche se è importante ricordarla davanti alle migliaia di vittime della pandemia. I cristiani hanno il diritto di rivendicare che ciò non è la fine definitiva e che queste morti aprono la porta ad una vita diversa, in un’altra dimensione.

Non sarebbe fuori luogo recuperare in questi tempi il tono fortemente escatologico del messaggio cristiano originale che annuncia la vita dove altri vedono solo morte e dove non ci sarebbe nulla da offrire a tutti coloro che ci lasciano all’improvviso e in una grande solitudine. Essi non sono solo numeri di una triste statistica che getta tutti nello sconforto; nella prospettiva pasquale, sono uomini e donne chiamati alla vita nuova in Cristo, alla vittoria sulla morte.

Un’altra chiave di lettura della pasqua di Cristo è più ampia e non si riduce alla dimensione escatologica: tutto ciò che possiamo vivere di negativo o di doloroso rimanda ad un orizzonte di trasformazione con la promessa di una vita migliore.

Certamente l’esperienza umana che più si avvicina alla dinamica pasquale è quella dell’amore che si dona e del sacrificio per il bene degli altri. L’idea che certe espressioni di amore richiedono la negazione di se stessi, o la donazione di sé al di là dei propri interessi per accedere a stati più esaltanti e pieni, non è nuova né estranea a coloro che scoprono l’amore al di là delle forme superficiali o solo erotiche.

Tuttavia, la dinamica pasquale racchiude in sé una promessa che va oltre le esperienze dell’amore di abnegazione o del sacrificio a favore di altre persone, o almeno dà loro un senso pieno. Infatti, la pasqua offre un orizzonte o una garanzia che permette di attraversare qualsiasi forma di negatività e di sofferenza con la speranza che si cambieranno in gioia e pienezza; oppure offre a coloro che in questi tempi difficili si sacrificano per gli altri una garanzia che il loro amore non sarà inutile.

L’idea profonda della pasqua di Cristo è che tutto il bene che abbiamo potuto fare rimane per sempre, non vien meno, non muore, ma si proietta nell’eternità. In Cristo morto e risorto abbiamo la certezza che il nostro amore, provato nelle croci di ogni giorno, e tutto il bene compiuto sarà per sempre e non morirà mai.

La fede come incarnazione e accompagnamento
La quarta chiave teologica per dare significato di fede a questi tempi di prova ci invita a condividere e ad assumere sia i dolori, sia i gesti di donazione a volte eroici che osserviamo come manifestazione della grazia di Dio, come presenza del suo Spirito che vive tra noi. Si tratta di una chiave più riflessiva, che deriva da uno sguardo capace di percepire il dono di Dio e la sua misteriosa presenza negli avvenimenti che vive l’umanità, sia quelli positivi sia quelli negativi.

Questa percezione si pone all’altro estremo rispetto alla mentalità apocalittica: dove l’apocalittico vede degenerazione e decadenza, colui che vive dentro la storia scorge l’opera di Dio, il suo amore presente in varie forme; dove il primo vede soprattutto esperienze di peccato, il secondo coglie espressioni della grazia; dove il primo vede negatività che invita a una fine catastrofica di purificazione, il secondo scorge molto amore e donazione, molta speranza.

L’esercizio teologico in questo caso si fissa su tutto ciò che rivela il meglio dell’umanità in mezzo alle sue ferite, perché assume una visione dall’interno di questa condizione umana, che rivela anche la sua grandezza.
Questa ottica coglie e applica nel suo significato forte la dichiarazione iniziale della costituzione dogmatica del Vaticano II, Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore… Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1).

La Chiesa perciò può leggere la situazione che vive l’umanità in questi tempi, con le sue luci e le sue ombre, dal di dentro e non dal di fuori, come chi giudica dall’alto. La fede cristiana discerne in ciò che sta succedendo i segni di vita che si riflettono in tutti gli sforzi che si compiono, in tutte le varie istanze di una società che si sente minacciata e insicura e persino terrorizzata. La fede impara in questa situazione a stare vicina e a condividere, a incoraggiare tutti e ad annunciare speranza.

Diversi teologi hanno insistito in questi ultimi anni nell’affermare che la missione di fede nel riconoscere l’azione provvidente di Dio non si identifica con lo straordinario, il soprannaturale o i limiti dei processi naturali, ma con la stessa dinamica della creazione e con gli sforzi della scienza, con il meglio dell’umanità che cammina verso il superamento del male. Questa è un’occasione unica per discernere la presenza di Dio sia in coloro che soffrono sia in coloro che amano e servono gli altri.

Note conclusive 
Questi tempi stanno mettendo a dura prova molte realtà, molte proposte, e non siamo sicuri di come vivremo, di come ci sentiremo dopo. È certo che un risultato importante di questo stato di cose è che ha obbligato a ripensare la fede cristiana come una “religione di salvezza” e non solo come una religione di carattere “spirituale”, come qualcosa che assomiglia all’esperienza estetica. In questo senso, le fede cristiana ricupera il suo carattere genuino, a condizione che sappia veramente aiutare la gente del nostro tempo ad affrontare e a superare queste difficoltà.

A questo proposito è opportuno ricordare che la fede religiosa si scopre meglio come un sistema di “superamento” (in inglese religious coping), vale a dire un insieme di risorse – convinzioni religiose, riti, preghiere – che aiutano coloro che se ne servono a superare situazioni difficili o di crisi.

Le ricerche effettuate in questi ultimi anni indicano che una strategia del genere basata sulla fede come aiuto significativo funziona meglio quando si combina con altre strategie, come quella terapeutica, l’amicizia o la conoscenza e lo studio.

Questo dato indica ancora che la fede cristiana è chiamata a camminare insieme ad altre espressioni positive, non a parte o in competizione con esse; è qualcosa che si deduce anche dalla situazione attuale in cui tutti dobbiamo offrire il meglio per far fronte alle nostre grandi sfide.

Un’ultima osservazione. Molti di noi sentono la mancanza nelle apparizioni pubbliche dei nostri governanti, soprattutto quando fanno gli annunci più drammatici e solenni, di una conclusione necessaria: «Che Dio ci aiuti». Sarebbe un segno di post-secolarizzazione reale e concreta, un modo di infondere speranza in tutti al di là delle divisioni.

  • Lluís Oviedo Torró, OFM, spagnolo, originario di Valencia, è professore di antropologia teologica presso l’Antonianum e la Gregoriana di Roma. Il presente articolo è stato ripreso dalla rivista Razón y Fe 2020, n. 1445.


domenica 17 maggio 2020

Avvenire: Sguardi oltre la crisi. Radcliffe: «È il tempo di dare nuova forma al tempo»

La clausura forzata ha disciolto i ritmi della vita precedente in un flusso indistinto. Questa è l’opportunità di ricostruirli su principi più umani. E più divini. La riflessione del domenicano


Nella preghiera di mezzogiorno cantiamo: «Fino a quando, Signore?» dal salmo 13. Prima del Covid–19, quando cantavo queste parole pensavo ai miei fratelli e sorelle in Iraq. Adesso queste parole le troviamo sulle nostre labbra. Fino a quando durerà la pandemia, Signore? Gli staff medici devono chiedersi quante ore dovranno lavorare in maniera sfiancante, rischiando la propria vita. Fino a quando i genitori potranno stare chiusi con i loro bambini, pazienti e amorevoli? Fino a quando i nonni non potranno godere di nuovo dei loro nipotini? Fino a quando non potrò disporre dei risultati del mio tampone sul coronavirus? Per quanto tempo potrò vivere? Anche nel mio spazioso convento a Oxford domando: «Fino a quando, Signore?» prima di vedere di nuovo le persone che amo. Skype e Zoom non sono la stessa cosa. Fino a quando, prima che possa abbracciare e stringere quanti mi sono più cari – e se ciò non avvenisse? Un’assenza breve affila il senso di attesa, ma quando è prolungata rode la nostra umanità. Nel romanzo Sete di Amélie Nothomb Gesù si compiace della sua sete: «Avendo sbuffato per la sete per un certo tempo, non bevo subito dalla coppa con fretta. Ne assaggio un pochino, la tengo in bocca prima di sputarla. Provo quanto è meravigliosa». Ma sulla croce, questa sete diventa orribile e travolge ogni sensazione.

Di solito, ci rapportiamo con questo “fino a quando” in riferimento a un calendario che struttura il nostro tempo: ritrovi di famiglia, le stagioni della nostra fede, le scadenze di scuola e università, eventi sportivi. Ma cosa struttura il nostro tempo adesso? Esso è senza forma, così è difficile farlo durare. «Il tempo è scaduto» osservava Amleto sconvolto. Sembra che abbiamo convissuto con il virus da anni, e non da settimane. Un amico mi ha scritto: «Le notizie dei media mi fanno sentire peggiore ma senza di loro ho la sensazione che mi manchi qualcosa. La quarantena mi rende nervoso rispetto al mondo fuori ma anche claustrofobico». Ho in stanza una pila di libri che volevo leggere da tempo. Adesso ho il tempo, ma non riesco mettermi seduto. L’unica tentazione è scrivere e rispondere alle email e rimanere incollato alle news.

La risposta a questo grido, “Fino a quando” non è una data su un diario ma un modo di vivere il tempo. Martin Luher King si chiese per quanto tempo il suo popolo sarebbe stato oppresso. «Per quanto sia difficile il momento, per quanto sia frustrante la nostra epoca, non durerà a lungo perché la verità repressa sotto terra risorgerà di nuovo. Fino a quando? Non a lungo perché l’arco della morale universale è ampio ma si flette verso la giustizia. Dio ha suonato forte le trombe che non batteranno mai in ritirata. Egli sta alzando in alto i cuori degli uomini prima di sedere sul suo trono a giudicare. Anima mia, sii veloce a rispondere a Dio. Siate giubilanti, piedi miei. Il nostro Dio si è messo in marcia». “Non a lungo” è durata quella situazione, e non perché vi fosse una data in cui il pregiudizio potesse finire ma perché Martin Luther King aveva imparato a vivere ogni giorno con speranza. San John Henry Newman diceva che un cristiano è qualcuno che attende Cristo e perciò è già toccato dalla sua venuta. Nella domenica in Albis del 1945, quando la Gestapo venne a prenderlo per ucciderlo, Dietrich Bonhoeffer ebbe solo il tempo di sussurrare un messaggio a un compagno di prigionia perché lo portasse al suo amico, il vescovo di Chichester George Bell: «Questa è la fine ma per me è l’inizio… La nostra vittoria è certa». Così ora il segreto è vivere i nostri giorni plasmati dalla speranza. Il teologo battista Ian Stackhouse lo ha detto così: «A me pare che la battaglia per la civiltà farà leva sulla sfida brutalmente semplice di vivere un solo giorno bene ». Questo, sostiene Stackhouse, è il dono della liturgia delle ore.

Entrambi i miei genitori scoprirono il ritmo vivificante della preghiera del breviario. Un membro del laicato domenicano, divenuto tale dopo essere stato imprigionato perché sicario di mafia, mi disse un giorno che era diventato come una suora, perché recitava il suo ufficio alla mattina, a mezzogiorno e alla sera. Le persone possono trovare altri ritmi più fecondi. Un mio amico, un medico di base che sta per andare in pensione, ha strutturato il suo tempo intorno a famiglia, corsa, giardinaggio, musica e poesia. Stiamo riscoprendo la gioia di una vita regolata. Non ho mai vissuto una vita così regolare da quando ero novizio! Da cosa si vede che la giornata è andata bene? La liturgia delle ore ci forma al punto che possiamo andare con la memoria ai pesi del passato, essere aperti al futuro con le sue promesse e così vivere il presente. Ci offre un’indicazione su come tutti noi, chiusi in casa, possiamo strutturare i nostri giorni così da vivere secondo speranza. La liturgia delle ore, in ciascuna orazione – eccetto l’ora sesta e l’ufficio delle letture – ha un cantico che ci invita a vivere questo momento della giornata. In Genesi 1 il giorno inizia dalla sera, come avviene per tutte le grandi feste. John Donne chiama l’ogiovane scurità «il fratello anziano della luce». L’alba arriva come un dono inaspettato. Per prepararci al nuovo giorno, alla sera o di notte, dobbiamo andare con il pensiero al passato, con i suoi pesi e i suoi risentimenti. Tacere con le altre persone, in una famiglia o sul piano di un condominio o anche in una comunità religiosa, sono fatiche che si accumulano e intensificano le tensioni.

In una società in quarantena, dopo un po’ di settimane trascorse sottochiave, i pensieri omicidi emergeranno. Il Magnificat ai vespri è il canto di una donna che ricorda con gratitudine le grandi cose che il Signore ha fatto per lei. In che modo avrebbe fatto fronte al futuro? Come possiamo contrassegnare ogni giorno con gratitudine per le grazie ricevute e per le persone che ci stanno guidando? Dobbiamo trovare il tempo per dire il nostro grazie, anche se non possiamo vivere il sacramento del Ringraziamento, l’Eucaristia. Molte persone stanno venendo a messa online nel nostro convento di Blackfriars, persone che non vi erano mai venute dal vivo. Alla sera a compieta siamo invitati a salutare il giorno, e anche le nostre vite. Come Simeone cantiamo: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola» (Luca 2,29). San Paolo ci invita a fare un gesto preciso: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,16). È il tempo per purificare i nostri pensieri dalle ferite della giornata così che possiamo essere in pace gli uni con gli altri. In un modo o nell’altro abbiamo bisogno di un atto quotidiano di mutuo perdono, curandoci le vecchie ferite. Altrimenti, non saremo capaci di dormire. Il giorno è il tempo di nuovi inizi. È di giorno che il Cristo risorto appare nel giardino. Tutte le Lodi sono un invito ad essere aperti alla promessa del Signore. Il cantico del Benedictus è la lode di Zaccaria per il suo bambino, il Giovanni Battista del futuro. I bambini sono la promessa del futuro.

Durante il genocidio del Ruanda, uno dei miei confratelli venne a piangere da me perché tutti coloro che amava erano stati annientati. Il Natale seguente mi mandò una foto con due neonati paffutelli. Sul retro, la scritta: «Il Ruanda ha un futuro». L’ora sesta del breviario non presenta nessun cantico. Ci invita a far fronte alla più ardua delle sfide: vivere adesso, piuttosto che restare intrappolati nel passato e scattare verso il futuro. Gesù era un uomo che viveva ogni giorno che gli veniva incontro. Stava camminando quando vede il piccolo Zaccheo sull’albero: «Zaccheo, scendi perché oggi devo fermarmi a casa tua». Gesù agguanta il tempo presente: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Luca 19, 1–10). Aspettare che la quarantena finisca del tutto può essere la cosa più dura che siamo chiamati a superare. Già ora mi appresto a rompere l’isolamento e a fare una passeggiata nei parchi di Oxford. Ma sento la voce di abba Mosè, il padre del deserto che mi ricorda: «Siediti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». Il Signore sta arrivando. Fino a quando? Non per molto.

(contributo apparso sul settimanale inglese “The Tablet”. Traduzione di Lorenzo Fazzini)

venerdì 1 maggio 2020

L'Osservatore Romano: Dallo smarrimento al risveglio

La realtà così anomala che stiamo vivendo ha sconvolto in maniera senza precedenti anche la vita cristiana. L’epidemia, esplosa poco prima del giorno delle Ceneri, ha investito tutto il tempo quaresimale, aggiungendo al normale digiuno, il digiuno eucaristico, con le sante messe celebrate a porte chiuse. La domenica delle Palme senza ulivo benedetto. Una Settimana Santa inverosimile, partecipata attraverso mezzi digitali, per lo più puntati sull’immensa basilica di San Pietro e la sua nuda bellezza e la sua enorme piazza completamente vuota. La liturgia del Triduo pasquale solenne, ma allo stesso tempo sobria, commovente. La parola, i canti, le risonanze, i lunghi silenzi. Un Papa sofferente, raccolto nell’intimo, gravato dal dolore dell’umanità. Una realtà unica, mai vissuta prima neppure in tempo di guerra, ha accomunato tutti, credenti e non credenti, imponendosi come segno di una speranza ancora indecifrabile.

Quello che sta accadendo non può finire nel nulla, non può semplicemente esaurirsi. L’esperienza vissuta scava nelle coscienze, trasforma la storia, non solo quella socioeconomica, ma anche quella della Chiesa. Questo tempo che unisce l’umanità intera nella medesima paura, nel medesimo smarrimento, nel medesimo dolore, favorendo gesti di grande generosità e solidarietà, al contempo isola e divide fra loro le persone, colpendo in modo particolare la cristianità, impedendo di partecipare ai sacramenti e alla vita comunitaria.

Ma c’è da dire che questo grande smarrimento, questo stato di imprevedibile precarietà, costituiscono proprio le condizioni che predispongono all’azione dello Spirito, che smascherano e invitano a intraprendere cammini di verità. Risuonano pertanto con forza le parole del iv vangelo: «È giunta l’ora ed è questa in cui i veri adoratori adoreranno Dio in Spirito e verità» (Giovanni, 4, 23). Spirito e verità sono assolutamente congiunti. Lo Spirito è luce che dissolve le tenebre e la verità, quando si mostra nuda, uccide, fa morire a se stessi aprendo allo Spirito. Questo tempo di isolamento, di separazione e lontananza, può favorire a livello personale intensi percorsi di comunione con Dio.

Il corpo mistico di Cristo, purificandosi si vivifica, chiama verso l’essenza che è la vita dello Spirito Santo dentro di noi, che è la potenza della resurrezione in atto, memoriale che è il sempre del tempo, realtà attuale, sempre attiva ed efficace. Le sconcertanti parole che Gesù pronuncia per la morte di Lazzaro potrebbero divenire particolarmente significative anche per noi: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio» (Giovanni 11, 4).

Il dramma in corso può essere l’occasione di un reale processo di risveglio spirituale. Ci è chiesto però di trasformare questo tempo di isolamento in tempo in cui valorizzare la solitudine. Se viviamo male la solitudine vuol dire che non abbiamo un buon rapporto con noi stessi. Se non siamo in pace con noi stessi, non siamo in pace con Dio, che si rivela nel profondo. Ci sono sbarramenti che chiudono all’amore. La solitudine costituisce in se stessa la condizione indispensabile per sviluppare un autentico rapporto di comunione con Dio.

Il passaggio forte che investe la Chiesa e l’intera umanità tende a far sì che le comunità si trasformino in autentiche realtà di comunione. Centrali i capitoli giovannei denominati Testamento di Gesù (Giovanni 13-17). «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Giovanni 14, 10-11); «Voi in me e io in voi» (Giovanni 14, 20).

La comunione del Figlio col Padre si estende, attraverso Gesù, ai discepoli e dai discepoli all’umanità intera, ma è indispensabile una condizione: «voi in me», restare in lui. Chi resta in lui, partecipa di lui: «io in voi». Il Verbo incarnato, morto e risorto ha vivificato di se stesso la natura umana divenendo reale potenzialità per ogni uomo e ogni donna. Chiede però nudità, abbandono, di restare in lui, affinché lui possa farsi conoscere nell’intimo. «Voi in me e io in voi» implica la disponibilità ad aprirsi all’amore che Gesù ha fatto conoscere come esperienza umana incarnata. «Voi in me», come dire: «se mi amate». Se vi aprite al mio amore, io vi colmo di amore. Questo amore è il suo Spirito, è lo Spirito Santo che è amore in atto. Amore nell’atto di amare. Aprirsi allo Spirito di Cristo invita a riconoscere che siamo abitati dallo spirito del mondo, chiede di accettare un cammino di svuotamento, di kenosi. Processo che avviene nell’interiorità, nella solitudine. Questo tempo così anomalo si annuncia allora come segno di un’opera potente che scava nelle profondità per sciogliere, per provare e maturare la fede, per dirci «che è giunta l’ora ed è questa».

È giunto il tempo per vivere concretamente le parole di Gesù, «voi in me e io in voi», per lasciarsi attrarre nella dinamica della SS. Trinità e ricevere ed espandere amore. Questo crea corpo, unità. Fa sentire presenza e vicinanza anche nella distanza, nell’isolamento. Vivere la comunione d’amore con Gesù rende partecipi di una intensità d’amore che resta salda, radicata, al di là di qualunque lontananza. Fa sperimentare la comunione di Spirito. La consuetudine a sentire la presenza viva di Cristo dentro di noi, educa a sentire la presenza viva anche delle persone che amiamo, non solo di quelle sulla terra, ma anche di quelle già passate a miglior vita. Rende partecipi della comunione dei santi.

La solitudine che conduce alla comunione d’amore con Gesù, si trasforma dunque in solitudine abitata, diviene la condizione necessaria a stabilire autentici rapporti di comunione con coloro che incontriamo sulla nostra strada. Intensità d’amore che crea corpo nella Chiesa e apre a un amore radicato e quindi sempre più dilatato universalmente.

Un amore che nella concreta vicinanza e presenza non diviene possessivo, aggressivo o dipendente, perché colmo, purificato da ogni forma di potere egoico, sia esso fisico, psichico e tanto meno spirituale. Questo vale per tutti, laici, consacrati, religiosi, perché possessività, brama di potere, investono tutti.

La comunione di Spirito richiede l’esperienza dello Spirito, la via dell’interiorità. Questa situazione così estrema che sta investendo anche il cuore della cristianità nella sua vita comunitaria, liturgica e sacramentale, potrebbe allora porre le condizioni per un effettivo salto di qualità, che sposti dal dover essere all’essere, che inviti a vivere la liturgia della vita, a incarnare i sacramenti. Segno profetico di una grande opera spirituale in atto.

di Antonella Lumini

L'Osservatore Romano: Il bivio delle due «i»: ineguaglianza o inclusione?

Il 1° maggio in tempo di pandemia ha un sapore amaro. Niente sarà come prima, a dispetto del refrain che ci siamo ripetuti molte volte in questi giorni: «Andrà tutto bene». Sappiamo che molte cose sono andate storte. La crisi che sta attraversando il mondo invita a uno sguardo evangelico sulla realtà, pone molteplici interrogativi e fa intuire nuove strade da percorrere.

Per prima cosa, vale la pena fermarsi. Un momento di silenzio è dovuto ai lavoratori che in questi mesi hanno perso la vita a causa del covid-19. Alcuni sono morti persino per la mancanza di dispositivi di protezione adeguati: sono medici, infermieri, operatori sanitari, addetti alle pulizie, cassieri, negozianti, operai, trasportatori, volontari... A loro giunga la nostra preghiera e tanta riconoscenza. È vivo anche il ricordo delle vittime sul lavoro nelle più svariate modalità e situazioni. Il loro sacrificio trasmette un senso di responsabilità perché la sicurezza dei luoghi di lavoro diventi scelta condivisa.

Il volto della crisi

Il lavoro è sottoposto a stress. Tanto più in tempo di pandemia. C’è chi ha lavorato troppo e chi per niente. Gli orari del personale sanitario o dei servizi cosiddetti «essenziali» sono senza precedenti e rasentano l’assurdo. L’immagine dell’infermiera di Cremona crollata sulla tastiera del pc ha fatto il giro del mondo. Si pensi, però, alle categorie dimenticate: molti marittimi impegnati per trasportare merci nei container non hanno avuto ricambi: in più porti c’è stato il divieto di cambio equipaggio. Lavori senza sosta. Come quelli relativi ai beni vitali o alla logistica.

L’altra faccia della medaglia è l’assenza di lavoro: la disoccupazione, le forme di cassa integrazione e l’affidamento al lavoro nero. L’eredità dell’emergenza sanitaria ha messo in quarantena interi settori produttivi: ci sono 3 milioni di impoveriti solo in Italia, sono aumentati gli indebitati incapaci di far fronte agli investimenti progettati e cresce il numero degli indigenti. Questi mondi si possono racchiudere sotto l’ombrello di un unico termine: povertà. C’è chi sa che non avrà più il posto di lavoro, c’è chi è rimasto senza stipendio e c’è chi non conosce le prospettive per il futuro, visto che rischia la morte economica a causa di debiti per la casa o per l’impresa. Non se la passano bene pure i 900 mila lavoratori irregolari impiegati in settori strategici come l’agricoltura o la cura delle persone (badanti) che non vedono riconosciuti i loro diritti più elementari. La regolarizzazione è la precondizione perché non finiscano in giri mafiosi o sotto forme di sfruttamento indegno (caporalato). Alcuni settori sono entrati in crisi dal primo giorno di chiusura totale: il turismo, la filiera agroalimentare, le cooperative sociali ed educative, l’edilizia, il mondo della cultura, le piccole e medie imprese, le partite iva, i settori dell’abbigliamento e dell’auto, i lavoratori stagionali... Tutti sono a rischio. Il settore florovivaistico è in ginocchio, la pesca è in difficoltà, la trasformazione del latte ha subito perdite notevoli. Ci sono aziende senza liquidità o con una liquidità che consente solo di navigare a vista.

Il quadro è desolante. Impossibile chiudere gli occhi. Questa crisi non segue un periodo pacifico. Veniamo da anni in cui si sono accresciute le ingiustizie sociali in un mondo che si è davvero globalizzato: molti beni sono in mano a pochi privilegiati e poche possibilità di riscatto sono in eterna competizione per la maggioranza delle persone. Si chiama «ineguaglianza». Circolava liberamente già prima del virus e la crisi odierna ha acuito la sua pericolosità sociale. Genera scarti umani. Molte persone rischiano di essere buttate fuori da un sistema economico che somiglia molto a una giostra che viaggia ad alta velocità per il divertimento di pochi. Chi non regge, viene sbalzato fuori. La prima cosa da fare è vedere questi nuovi poveri. L’impoverimento cova paura, angoscia e rivalsa.

Tempo di discernimento

La tempesta smaschera le contraddizioni delle nostre scelte economiche ed ecologiche. Una delle scene più impattanti di questo periodo è la preghiera del Papa in piazza san Pietro deserta e bagnata. La data è stampata in memoria visiva: venerdì 27 marzo 2020. La sua preghiera non è stata meno efficace. Ha usato l’immagine della velocità: «In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Dunque, la realtà parla: si tratta di ascoltare il grido dei poveri e quello del creato, come ricorda Laudato si’ 49.

La sosta forzata ci ha messo nelle condizioni di fare discernimento. Cosa c’è che non va? E quale direzione intraprendere per non finire nello stesso burrone? La crisi ha evidenziato una capacità di resilienza che è preziosa. C’è chi ha potuto lavorare grazie alla tecnologia. Smart working e didattica on line hanno consentito di non chiudere del tutto. È una possibilità concreta anche per affrontare alcuni problemi che ci trasciniamo da tempo: la conciliazione dei tempi familiari con quelli del lavoro e l’inquinamento delle città esposte al traffico ordinario.

La resilienza va accompagnata con il coraggio della conversione. Ci siamo resi conto che mantenere investimenti nella produzione e nel commercio delle armi per sottrarli sistematicamente alla sanità è semplicemente folle. Perseverare in spese militari così imponenti è struttura di peccato. Si parla di 2 mila miliardi di dollari all’anno destinati all’industria della guerra. Continueremo su questa strada? La crisi è sistemica e chiama in causa la giustizia sociale. Ormai è chiaro a tutti che un’economia fondata su un sistema sanitario fragile non regge. Anche chi ha provato a difendere l’idea dell’«immunità di gregge», per tutelare gli affari (business is business), ha dovuto fare marcia indietro. Subito. Si è rivelato lupo travestito da pecora: a che pro sacrificare i più fragili di una società illudendosi di mettere al sicuro gli interessi dei più forti? Il darwinismo sociale si è dimostrato un clamoroso autogol, ma ha sempre la fila di tifosi disposti a sostenerlo.

Il discernimento si potrebbe allargare a più fronti. Per esempio, perché non mettere in discussione le università a numero chiuso su alcuni settori strategici della società (medicina...)? E perché ignorare che in questa pandemia se qualcosa del tessuto sociale è rimasto in piedi al servizio dei più deboli (disabili, senza fissa dimora, anziani soli, malati psichiatrici...) lo si deve all’intraprendenza del tanto bistrattato Terzo settore? E poi, quanto dobbiamo al volontariato in termini di cura alle persone? Inoltre, perché illudersi che un Paese possa farcela da solo, quando abbiamo assistito al generoso soccorso del personale sanitario cinese, albanese, cubano, russo, americano... nelle nostre città? Faremo ancora il verso a una società «ribaltata», dove i personaggi dello sport e della televisione sono strapagati, mentre un infermiere professionale riceve qualche applauso solo in tempo di pandemia? Riapriremo come se nulla fosse il gioco d’azzardo, vera epidemia sociale?

Le domande potrebbero continuare. Molti temi si affacciano all’attento osservatore dei fenomeni sociali. C’è un tema che non ci esime dal discernimento ed è il legame tra questa crisi e quella ecologica. Le intersezioni sono notevoli. È in gioco il rapporto tra l’uomo e le altre specie viventi, soprattutto animali. L’inquinamento atmosferico ha il suo peso sull’aggravarsi di situazioni come quella causata dal covid-19. L’esposizione prolungata dei polmoni umani al particolato li rende più sottoponibili a forme croniche di infiammazioni. Si è osservata una correlazione significativa tra il livello di polveri sottili e le ospedalizzazioni d’emergenza per polmoniti bilaterali. Gli stessi cambiamenti climatici potrebbero esporci in modo più frequente a simili crisi sanitarie: questo fatto dovrebbe preoccupare molto di più della data di riapertura delle attività o di scoperta e distribuzione del nuovo vaccino.

Se le cose stanno così, quale direzione?

Benedetta inclusione

«Costruire un’economia diversa non solo è possibile, ma è l’unica via che abbiamo per salvarci e per essere all’altezza del nostro compito nel mondo»: scrivono i vescovi italiani nel loro Messaggio in occasione del 1° maggio. Le forme di esclusione sociale rivelano alla radice una mancanza di fraternità. Il problema è etico. Nessun «elicottero di denaro» versato sui nostri conti correnti e nessuna iniezione di liquidità nelle casse delle imprese possono essere risolutivi senza un rinnovamento dei rapporti sociali. C’è bisogno di inclusione. Di riabbracciare le situazioni più dimenticate e più fragili. Serve il coraggio di aprire nuovi spazi che consentano forme di ospitalità e di solidarietà reciproca. Il messaggio che dovrebbe arrivare alla pelle di ogni persona è che c’è posto per tutti. Nessuno deve perdere il lavoro, che è innanzi tutto uno dei luoghi che rivelano la dignità umana e non rappresenta mai semplicemente una fonte di guadagno. Si può giustamente invocare un nuovo patto sociale. Per fare questo non occorre limitarsi a guardare i problemi solo da un punto di vista tecnico. Gli economisti sono importanti, ma non intercettano le questioni se pensano che il sociale lo si rinnovi immettendo o togliendo risorse monetarie, favorendo investimenti e intervenendo sul mercato finanziario. Perché non uscire dall’equivoco? Quando si invoca «più Europa» significa «più soldi europei» per i singoli Paesi o «più solidarietà» tra gli Stati per cui la sofferenza di uno li rende tutti coinvolti? Se è il secondo caso, ciò comporta che il mettere mano al portafoglio sarà una conseguenza inevitabile di una diversa convivenza tra i popoli.

Lo sguardo dovrebbe andare alle relazioni sociali, alla capacità di tenere insieme un tessuto relazionale che è patrimonio indispensabile per uscire da qualsiasi crisi. È la tenuta morale di un Paese che costituisce la condizione di possibilità per una buona economia, per una seria ecologia e per una virtuosa vita sociale. In pochi, però, stanno lavorando su questo fronte. Diciamolo: una politica in perenne caccia di capri espiatori per salvare se stessa non aiuta. Un dibattito pubblico appiattito sui miliardi da far arrivare, sull’indebitamento che ci possiamo permettere e sui livelli di pil in concorrenza, non è sufficiente. Servono costruttori di legami a tutti i livelli, politico, economico, sociale. La controprova la vediamo su due temi sempre presenti, come due bestie capaci di succhiare il sangue buono che scorre nelle vene del Paese: la corruzione e l’evasione fiscale. La crisi potrebbe essere di nuovo una fiorente attività affaristica per le mafie. La corruzione distrugge le coscienze. Le compra e alimenta il senso di impotenza. L’evasione fiscale, che in Italia raggiunge i 110 miliardi di euro l’anno, si sostiene sul principio che il più scaltro si salva. In realtà, si tolgono risorse al bene comune, che si chiamano famiglie, poveri, disoccupati, scuole, sanità, piccole e medie imprese, lavoratori precari... Un nuovo patto sociale chiede scelte condivise. Riusciremo a percorrerle insieme? Avremo il coraggio di regalarci stili di vita e tempi più umani? Saremo capaci di vera solidarietà che guarda ai precari, ai disoccupati, ai giovani e agli ultimi come i primi destinatari di una nuova attenzione? Custodiremo la nostra fragilità abbandonando quel senso di onnipotenza che talora ci sovrasta e ci schiaccia? Le domande restano, ma intuiamo che questo è il livello. Si può ripartire se c’è un nuovo progetto di cura per la vita sociale e per la casa comune. Torniamo a respirare aria di cittadinanza attiva in presenza di una comunità solidale e di una rinnovata responsabilità ecologica.

Ogni costruzione sta in piedi se ha fondamenta solide. Così ogni ricostruzione. La nuova stagione sarà post-crisi. Ossia tempo di giudizio di fronte al bivio delle due «i»: ineguaglianza o inclusione?

di Bruno Bignami