Pagine

Pagine

martedì 28 maggio 2019

L'Osservatore Romano: Quella domanda che è la morte

Una riflessione su eternità e limite


Presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma, per iniziativa della Fondazione Istituto Irti per gli Studi Giuridici, il 23 maggio scorso l’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte ha tenuto una lectio magistralis sul tema «Quella domanda che è la morte», di cui riportiamo un ampio stralcio.

Basta uno sguardo all’esistenza umana per constatare quanto la vita sia segnata dalla domanda che è la morte. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nell’essere tutti “gettati” verso la morte: «La morte — scrive Martin Heidegger in Essere e tempo — sovrasta l’Esserci. La morte non è affatto un mancare ultimo... ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta». È davanti a questa vertigine, però, che l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino e si pone domande. Lo fanno intuire questi intensi versi di Eugenio Montale: «Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o lieto; / forse il nostro cammino / a non tócche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; / o sarà forse un discendere / fino al vallo estremo, / nel buio, perso il ricordo del mattino. / Ancora terre straniere / forse ci accoglieranno: smarriremo / la memoria del sole, dalla mente / ci cadrà il tintinnare delle rime. / Oh la favola onde s’esprime / la nostra vita, repente / si cangerà nella cupa storia che non si racconta!» (Ossi di seppia). Il pensiero nasce, dunque, dalla morte: «Dalla morte, dal timore della morte — scrive Franz Rosenzweig — prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia (...) Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (La stella della redenzione).

Eppure, nell’epoca moderna si è profilata una vera e propria eclissi della morte. L’ottimismo della ragione adulta dall’Illuminismo in poi aveva esorcizzato la morte, relegandola alla condizione di puro passaggio nel processo totale dello Spirito, culminante nel suo indubitabile trionfo. Il mito moderno del progresso, caro alle grandi narrazioni ideologiche, tendeva a banalizzare la morte, facendone una tappa marginale della storia dell’individuo, totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell’idea: la morte andava ignorata, evasa, nascosta. A sua volta, il pensiero debole del post-moderno evade la morte non meno che il pensiero forte delle ideologie: per entrambi la domanda della morte è disagio e fastidio, perfino quando l’ultima sponda fosse invocata o cercata come illusoria consolazione rispetto al vuoto di senso. Dietro l’evasione permanente della domanda, che è la morte, si nasconde in realtà l’assenza di passione per la verità: attraverso l’eclissi della morte si tende a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata.

È il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare! Scompaiono i segni del lutto: la finzione rassicurante della propaganda vuole averla vinta sulla serietà tragica dell’interrogazione radicale. È col tramonto dei grandi racconti ideologici che si riaffacciano segnali di attesa. Sembra esserci una “nostalgia del Totalmente Altro” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere nelle inquietudini della crisi presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Si profila una ripresa della questione del senso al di là delle varie forme di pensiero che evadono la morte, e con essa emerge l’urgenza di ritornare alla domanda, che è la morte: restituer la mort (Ghislain Lafont) è il compito che ci aspetta. Per la fede cristiana questo ritorno alla domanda che è la morte è sfida a tornare a quella morte, dove si è consumata la morte della morte: la morte del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e il Suo risorgere alla vita. Nell’evento infinitamente doloroso della morte in Dio avvenuta sulla Croce è rivelato e promesso il senso del vivere e del morire umano.

A quell’evento si volge lo sguardo della fede alla ricerca di un significato, che faccia non solo della vita il cammino responsabile dell’imparare a morire, ma anche della morte il dies natalis, l’evento misterioso del nascere oltre la morte.

Solo nella morte e resurrezione del Verbo incarnato si offrono le “trasgressioni” di Dio, che aiutano noi, abitatori del tempo, a “trasgredire” la morte: l’uscita di Dio da sé, l’exitus a Deo del Figlio venuto nella carne, attraverso il grande viaggio verso Gerusalemme, culmina nell’evento della Sua morte, inseparabile dalla totalità della sua esistenza e dal suo rapporto col Mistero assoluto. Illuminata com’è da ciò che la precede, la morte della Croce è rivelata nella sua profondità abissale dall’altra “trasgressione” divina, la resurrezione, che è il reditus ad Deum del Figlio fatto carne.

Nel Suo abbandono il Figlio non esita a rinviare al volto paterno e amoroso della nascosta Origine: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Luca 23,46). La sua angoscia rivela la sua solidarietà con la condizione umana, nella quale fino in fondo è entrato. All’abbandono si unisce però nella vicenda del Figlio dell’uomo la comunione con Colui che l’abbandona: l’Abbandonato accetta in obbedienza d’amore la volontà del Padre: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Matteo 26,42). La Croce rivela così la possibilità di vivere la separazione più alta come profondissima vicinanza: morire come Gesù e con Lui è abbandonarsi a Dio, lasciando che tutto si schiuda a un’altra luce, in Colui che ci accoglie.

Lo esprime con rara efficacia uno scrittore del nostro tempo, Renzo Barsacchi, testimone solitario e mistico, che prega così nei versi delle sue Notti di Nicodemo: «Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze».

Ma chi potrà vivere come il Figlio dell’uomo l’unità di lacerazione e di abbandono nell’ora della morte? chi potrà come Lui trasgredire la soglia? Secondo la fede cristiana la forza, che sola rende possibile l’apparentemente impossibile unità di comunione e di abbandono nell’ora della morte, è lo Spirito Santo: è Lui che unisce e separa al tempo stesso l’Abbandonante e l’Abbandonato del Venerdì Santo, è Lui che ripresenta in chi muore abbandonato a Dio il mistero dell’abbandono vittorioso della Croce. «Cristo con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio» (Ebrei 9,14). «Gesù disse: “Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Giovanni 19,30). Come nel seno delle relazioni trinitarie lo Spirito è l’unità e la pace dell’Amante e dell’Amato e al tempo stesso è l’estasi divina, che consente ad essi di uscire da sé nel dono dell’amore, così nell’evento della morte di Croce è Lui il vincolo della consegna amorosa del Padre e dell’obbedienza filiale del Crocifisso, è Lui il fuoco del sacrificio (vedi Ebrei 9,14), in cui essi consumano la loro lacerazione dolorosa per amore del mondo. Lontananza e prossimità coincidono grazie alla potenza del Consolatore della morte di Cristo e d’ogni morte umana: mentre sorregge l’abbandonato nel suo destino mortale, lo Spirito lo tiene unito a Dio, rendendolo capace dell’offerta suprema.

È quanto esprime l’iconografia della Trinitas in Cruce, dove l’evento della morte del Crocefisso è colto come rivelazione della Trinità: il Padre regge fra le Sue braccia il legno della Croce, da cui pende il Figlio, mentre la colomba dello Spirito separa e unisce l’Abbandonato e Colui che lo abbandona (si pensi alla Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze).

Mentre illumina dal di dentro la morte, il divino Consolatore agisce in essa, aiutando chi muore a vivere il suo ultimo esodo: nell’atto dello spirare, Egli non si sostituisce al morente, ma lo unisce a Cristo e lo rende così capace dell’ultimo dono, spirando in lui la carità, che sgorga dal cuore del Padre. Mistero di abbandono e di comunione, la morte è dunque agli occhi della fede un evento pasquale, illuminato dalla Croce del Risorto: raggiunta dalla signoria di Cristo, la morte passa nel suo contrario, la vita: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?... Siano rese grazie a Dio che ci dà vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Corinzi 15,54s 57). L’atto del morire, alla luce di Pasqua, introduce oltre il limite della morte stessa: come il Cristo è passato dalla morte alla vita, così la morte, che egli ha fatto Sua, viene rivelata come passaggio ad una nuova condizione di esistenza, cammino pasquale verso il futuro aperto dal Risorto. Le “trasgressioni” di Dio rendono possibile la suprema trasgressione dell’uomo: la vittoria, appunto, sulla morte.

di Bruno Forte

domenica 26 maggio 2019

Avvenire, Spiritualità: Torniamo con Thoreau a imparare dalla grammatica dei boschi: camminando

Marina Corradi sabato 25 maggio 2019
Filosofo americano dell'Ottocento, si costruì una capanna nei boschi vivendoci per anni. Qui si imparano verità che non sono scritte sui libri. È la stessa che si apprende sul cammino per Santiago


Pubblichiamo uno stralcio della postfazione scritta da Marina Corradi, editorialista e inviata di “Avvenire”, al saggio di Henry Thoreau Camminare, edito da Marietti 1820.

Henry David Thoreau, nato nel 1817 a Concord, Massachusetts, filosofo e poeta, si costruì una capanna nei boschi e ci visse, solo, per alcuni anni. Individualista, solitario, selvatico, concepì una sua filosofia della natura e del senso stesso del vivere. Il suo “camminare” è vissuto come impresa spirituale, viaggio di Ulisse, o marcia di pionieri. «Ogni passeggiata è una sorta di crociata, predicata da un Pietro l’Eremita ch’è dentro di noi», dichiara.

Un andare senza pensare alla strada del ritorno, e senza timore di perdersi; o forse, addirittura, con un segreto desiderio di perdersi, per essere portato in luoghi romiti e ignoti, lungo sentieri traversati solo dal passo cauto delle volpi. Occorre camminare, scrive Thoreau, «come un cammello», adempiendo a un compito segreto, a una chiamata interiore. Non è un vagabondare: il vagabondo di Thoreau «non è mai più girovago di un fiume che nel suo corso serpeggiante se ne va diligentemente alla ricerca del percorso più breve per giungere al mare». Un fiume chiamato al mare, che del fiume è il destino: siamo, direi, nella forma mentis, forse inconscia, del pellegrinaggio.

Thoreau annota che, istintivamente, una bussola interiore lo spinge verso ovest. È verso l’Oregon che deve andare, dice, non verso l’Europa: «L’Atlantico è come il fiume Lete, e l’averlo attraversato ci ha dato l’opportunità di dimenticare il Vecchio Mondo e le sue istituzioni». Lasciarsi alle spalle tutto, le città, l’organizzazione e le convenzioni sociali, la stessa civiltà. Avverti in questo americano una eco di Rousseau, quando sostiene che «tutte le cose buone sono selvagge e libere [...]. Datemi come amici e come vicini degli uomini selvaggi, non uomini addomesticati!», e intravedi l’idea dell’uomo come parte di una natura buona e incontaminata, pervertita poi dalla civiltà.

Cose che, da cristiano, tu non puoi condividere, se credi invece in un peccato originale che segna ogni nato. E tuttavia, torni a dirti, soffia fra queste righe qualcosa di vero. Camminare nella natura, affondarci dentro, dunque, ricercando il proprio destino, e insieme la propria origine. Non è l’esperienza, oggi, di migliaia di pellegrini sui sentieri verso Santiago? Potrebbero andare a Santiago in aereo, ma tornano a camminare, a cercare la fatica aspra e buona dei passi sulla polvere.

Io stessa l’ho provata, in una indimenticabile settimana sul Camino Inglés, da La Coruña, sull’oceano, a Santiago, attraverso la Galizia. Era aprile, pioveva e schiariva, la Galizia era un orizzonte ampio di boschi, e di campi di un verde germinale. Calle candide spuntavano, spontanee, da rigagnoli fangosi, e mi sbalordivano: dalla melma, un fiore come una vergine. Un profumo buono di acqua, di terra, di primavera impregnava l’aria. Sulla soglia delle ca- se i vecchi contadini ci salutavano: «Ir con Deus!», auguravano in galiziano. E noi andavamo. Ci alzavamo che era ancora notte, ci incamminavamo che appena albeggiava. Cantavano i galli nelle cascine: meraviglioso quel cantare di galli, mentre l’oscurità, come un nemico in fuga, si dileguava. Non mi ero mai resa conto di quanto potesse essere folta l’ombra di un bosco, e pesante il fango nero in cui affondano i tuoi piedi, dopo la pioggia. E quanto è luminosa, una notte di luna piena. Non avevo mai osservato così bene le giovani felci palpitanti nel sottobosco, e l’edera tenace. Mi si apriva davanti, in quel camminare lontano da ogni strada d’asfalto, un universo. Il mondo, com’era: secoli fa.

C’era un tesoro, in quella natura vergine, in questo Thoreau è assolutamente autentico e ci è contemporaneo. Io di quel tesoro, mentre camminavo in Galizia, avevo una confusa memoria. Sentivo riaffiorare in me le sensazioni di quando ero bambina, d’estate, nelle Dolomiti, e passavo pomeriggi molto solitari, ma splendidi, a esplorare i dintorni della vecchia casa in cui alloggiavamo. Erano i prati di fine giugno con l’erba altissima, quasi quanto me, in cui amavo tuffarmi come in un mare. Era l’ebbrezza del profumo aspro dell’erba appena falciata, e la dolcezza arresa di quello del fieno. Il ronzio diligente delle api all’alveare, l’andirivieni disciplinato delle formiche. Il ruscello dall’acqua incredibilmente limpida, che cosa mi suggeriva senza che io riuscissi a decifrarlo, e perché mi incantava? E il canto degli uccelli fra gli alberi, che mi pareva un chiamarsi fra loro, e rispondersi.

Gramática parda è l’espressione, bellissima, che Thoreau usa per indicare questa lingua. È spagnolo, significa “grammatica oscura”, tacita grammatica che non si impara sui libri, ma nei boschi e nei pascoli. Leggendo questo americano ottocentesco ho capito che l’infanzia solitaria delle mie estati in montagna è stata un dono. Gramática parda: là l’ho imparata senza accorgermene, eppure mi ha costruita. Io non ho avuto una educazione religiosa, eppure quella grammatica dei boschi ha impresso in me uno stupore, un senso di meraviglia, e una domanda.

È in fondo la medesima grammatica che ha plasmato generazioni di uomini: l’ordine armonioso del giorno e della notte, i germogli prepotenti a marzo e il docile morire delle foglie a novembre. Il chiudersi delle corolle dei fiori al tramonto, e il riaprirsi al primo raggio del sole. L’andirivieni degli uccelli che preparano il nido, e la maestà di una gatta che cova i suoi nati, fissando gli intrusi con occhi da tigre. Il nascondersi di ogni creatura viva quando il cielo d’estate si rabbuia, e nella calma improvvisa del vento scocca, secco, il primo lampo.

«Credo nella foresta e nel prato, e nella notte in cui il grano cresce», recita il filosofo americano, come cercando le parole per una sua inespressa preghiera. Io, che credo in Cristo, potrei recitarla con lui. Perché c’è qualcosa di molto grande che tanti di noi, uomini del terzo millennio cresciuti in città d’asfalto o davanti ai computer, abbiamo dimenticato. Non è un ecologismo alla moda, o un moralistico rimproverarci per quanto inquiniamo. È una bellezza, invece, quella che Thoreau racconta: «Ecco dunque questa vasta, selvaggia, incombente madre di noi tutti, la Natura, che vive in tutto quanto c’è attorno, simile al leopardo per bellezza e cura per i suoi figli».

La Natura, che per i credenti è il Creato. Ciò che Dio mostra a Giobbe con fierezza: «Per quali vie si diffonde la luce, da dove il vento d’oriente invade la terra? Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, per far piovere anche sopra una terra spopolata, su un deserto dove non abita nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far sbocciare germogli verdeggianti? Ha forse un padre la pioggia? O chi fa nascere le gocce della rugiada?».

È la Bellezza del capitolo 38 del Libro di Giobbe ciò che emerge come in filigrana, forse inconsapevole, dalla filosofia del laico Thoreau. Contiene in sé la memoria di un ordine primigenio, ciò che governa gli stormi degli uccelli migratori, o gli estri degli animali, o apre all’unisono i boccioli dei peschi magri dei nostri viali cittadini, a marzo. È un ordine buono e grande, cui ci fa bene aderire, e che ci fa molto male sovvertire, come ci ricorda papa Francesco, richiamando l’attenzione della Chiesa su un ambiente a lungo trascurato. Quasi volendo tornare alla limpida fonte francescana, al «Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, ...».

mercoledì 22 maggio 2019

Alzogliocchiversoilcielo: Rosanna Virgili "La Persona sbagliata"

Vedere un uomo politico impugnare una Croce ci fa ricordare pagine remote e recenti di simili abusi che non hanno portato bene né alle società civili né, tanto meno, alla fede religiosa. Eravamo convinti che una Chiesa protesa a convertirsi al Vangelo sperasse di non vederne scrivere mai più.
Ascoltare un cittadino che si dice cristiano, capo di un partito politico, che mostra il Rosario e si rivolge alla Madonna, sicuro di avere da Lei la vittoria alle prossime elezioni ci fa, poi, molto interrogare.

E ci chiediamo: di quali ambizioni di futuro, di quali programmi, di quale giustizia, di quale idea di bene comune, di società, di popolo e nazione, la Madre di Gesù dovrebbe diventare paladina?
L’idea del partito è chiara, semplice e popolare tanto che possiamo capirla anche noi, persone senza troppi studi: prima vengono gli italiani, vale a dire i loro diritti, la loro sicurezza, la loro proprietà, la loro religione. Quanto richiede una serie di dispositivi di selezione e di “chiusura” che coinvolge sia i confini di proprietà delle persone fisiche (si veda la legge sulla legittima difesa) sia quelli della nazione; sia quelli economici sia quelli delle idee e delle tradizioni (e qui di esempi se ne potrebbero far tanti).
Il programma è predisposto alla difesa di ciò che è “nostro”, rispetto a ciò che non ci appartiene e, quindi, ci è nemico.
Una difesa che chiede compattezza e non può permettersi l’opinione diversa né la discussione, pertanto occorre educare i cittadini all’acquiescenza (vedi vietare gli striscioni ai balconi) e la Scuola e le Università alla complicità (ed ecco la Professoressa di Palermo che viene sospesa).
Come cittadina italiana battezzata vorrei dire a questo politico che io non metto in dubbio la sua fede e che apprezzo il suo animo orante, ma che credo che la Madonna sia la Persona sbagliata. Penso che in nessun caso la Madonna potrebbe concordare con questo suo programma. Innanzitutto perché non è italiana. Poi perché è povera e viene da un Paese povero del Sud del Mediterraneo e non potrebbe mai pagarsi neppure una levatrice che l’aiutasse a partorire. Poi perché non vorrebbe separarsi da suo marito Giuseppe, se a questo la forzassero - come il suo governo pretende dalle donne soccorse in mare –, perché questa è la volontà di Dio. Poi perché è un’eterna migrante per motivi “umani” quindi ha bisogno di essere accolta. In gioventù fu costretta a scappare in Egitto sulla groppa di un asino sotto un sole cocente, attraversando un deserto e rischiando di essere respinta – insieme a Gesù neonato - alle dogane africane; in vecchiaia – lei pensi! - fu adottata da un giovane amato da suo figlio e finì ad Efeso, che oggi si trova in Turchia.
Che dire sulla chiusura dei porti? Maria non potrebbe mai esser d’accordo: lei stessa si fece, infatti, come un “porto” per accogliere lo straniero degli stranieri: il Dio che veniva dal Cielo!
La Madonna, rispetto al suo programma, ha proprio un’altra visione del mondo. Come potrebbe avere una concezione identitaria – fisica e politica – Lei, Sposa di Dio? Madre di un figlio di nessuno all’anagrafe di questa terra? Come potrebbe voler difendere la proprietà privata, anche con la pistola, se non è titolare di nulla?
La Madre di Gesù ha, poi, un “manifesto politico” che, onestamente, è molto più ampio e alto del suo: si chiama il “Magnificat”. È un inno forte, com’è immensa la sapienza di questa donna, che celebra la grandezza di Dio perché: “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi”. A qualsiasi popolo essi appartengano. Le do un consiglio: sia lei a sottoscrivere il programma di Maria di Nazareth.

*****

Come tante cittadine italiane sono cresciuta in un paesino di campagna e, nel mese di Maggio, quand’ero piccola, si andava a recitare il Rosario, portando da casa un mazzetto di viole o di rose e il profumo riempiva la Pieve. Tante erano le donne a pregare e, specialmente, le contadine, le irregolari, le vedove, le sospettate, le ragazze madri, le orfane, quelle che i mariti, ubriachi, picchiavano, le forestiere che qualche famiglia di buoni cristiani aveva ospitato a tempo indeterminato.
La Madonna era trattata con puro amore ed eravamo noi a chiederLe cosa potessimo fare per Lei, che tanto soffriva per il mondo a causa dell’umanità e la fraternità che vedeva continuamente violate. Essa ispirava vocazioni missionarie, voli dell’anima verso i bambini neri o gialli, o bianchi, ma affamati e senza istruzione. A quante ragazze Lei ha insegnato la corresponsabilità dell’ingiustizia e della sofferenza universali! Tra le donne che penavano la giornata e Maria non occorrevano nemmeno le parole, tanta era la naturale intesa: Lei era la madre di chi non aveva madre, Lei che aveva avuto un figlio ucciso, era la compagna delle madri delle vittime e dei carnefici; Lei, che era stata sola, era intima a chi brancolava, nel buio della disgrazia o della vergogna.
Era lei il refugium peccatorum, la regina martyrum, la consolatrix afflictorum, la speranza dei diseredati, la ianua coeli, quella “porta del cielo” che faceva entrare tutti senza documenti; Lei la foederis arca: l’arca dell’alleanza dove tutti ci sentivamo al sicuro di trovare spiaggia nel Paese di Dio.
Quella preghiera litanica plasmava le nostre menti ancora bambine educandole alla carità, alla solidarietà, al soccorso dei più deboli, alla misericordia, all’ospitalità, alla cura del bene di tutti, alla festa. Pur nella povertà materiale, nelle grandi durezze della vita, la parola era dolce, rispettosa, civile. Fraterna. Nessuno avrebbe fischiato il nome del Papa, o si sarebbe arrogato il diritto di fargli da censore, ancorché sapesse che nessun Papa – uomo e peccatore anch’egli – fosse perfetto. Il mondo cristiano aveva un sapore di pane umile e spezzato, d’amicizia, un gusto di vino buono. Lo stile di vita che oggi adottano le Comunità di accoglienza - in tanti di quei luoghi e casi che rientrano anche nell’ambito del “Terzo settore” - ieri lo vivevano le normali famiglie e i paesi. E certamente anche quelli dove il partito di cui stiamo parlando, raccoglie, oggi, la gran parte dei consensi.
Vorrei condividere questi miei pensieri proprio con loro, con tante donne, mamme, ragazze, nonne cattoliche. E con tutti quei cristiani che amano la Madonna e pensano che li possa rappresentare e che possa custodire le loro radici cristiane chi oggi esibisce il Rosario.
Vorrei che ci sedessimo ancora sui sedili davanti la chiesa per ragionare insieme sulle vere e buone tradizioni della nostra fede, così che, illuminandoci a vicenda, risvegliandoci alla bella memoria, possiamo evitare di essere ingannati dai venditori di arroganza e menzogna, da chi parla davvero un’altra lingua, ha sogni e radici contrari ai nostri e non ha pudore di strumentalizzare ogni cosa, anche le cose più sacre.

L'Osservatore Romano: La società italiana ha bisogno di una Chiesa vitale

Intervista a Giuseppe De Rita 

21 maggio 2019
Nello stesso momento in cui il Papa rivolgendosi ai vescovi italiani li ha spronati nella direzione della sinodalità, il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, che di Italia se ne intende, si lasciava andare ad una riflessione preoccupata sulla stanchezza della chiesa e quindi della società italiana, augurandosi uno scatto, un sussulto da parte della istituzione ecclesiastica, che potrebbe passare anche attraverso l’indizione di un sinodo. «Un sinodo potrebbe servire perché vorrebbe dire che la chiesa si interroga e cerca di fare un passo in avanti. Ci vuole però uno scarto, una mossa ben pensata. Perché un sinodo oggi non può avere il suo punto di partenza in documenti teologici, in testi dall’alto profilo culturale già esistenti; non si può quindi fare un sinodo intellettuale, e lo dice un intellettuale. Non puoi fare nemmeno un sinodo di apertura al mondo, perché il mondo è più povero di te, a chi ti apri, a Trump? Salvini? Macron? Paolo VI poteva aprirsi ai francesi, Wojtyła aveva un occhio preciso verso gli anticomunisti come Blair... ma oggi con chi dialoghi? No quindi alle élite cattoliche intellettuali e no anche all’apertura al mondo; resta una strada che passa attraverso una forte spinta di autocoscienza del corpo sociale. La chiesa si deve chiedere “verso dove sto andando, verso l’accidia, verso l’abbattimento intellettuale, morale senza speranza?”. Ci vuole quindi un cammino di autocoscienza con dei meccanismi di provocazione, penso a una batteria di non più di dieci domande tese a provocare la coscienza del gruppo (parrocchiale, diocesano, dei religiosi...) che si riunisce e che dice: stiamo parlando della nostra società così come la vediamo noi e alla quale vogliamo partecipare cercando di capire. Questo processo deve arrivare a un ultimo momento di incontro, di pensamento che porta alla stesura di un manifesto che non è un documento di sintesi finale ma appunto un manifesto, proteso in avanti.



Più volte il Papa ha precisato che un Sinodo non deve soltanto produrre documenti ma avviare e accompagnare processi.

Esatto. Il Concilio Vaticano II è partito quando è stato messo da parte il documento preparatorio. Ottaviani e Felici avevano predisposto un testo preparatorio, quando gli altri hanno detto “Questo testo noi non lo discutiamo” è lì che è partito il Concilio. Altrimenti avrebbero discusso su quel testo e basta. Il punto cruciale è trovare il modo in cui la cultura si muove con la base, in cui camminano insieme l’alto e il basso, la testa e l’assemblea. L’assemblea ratifica, analizza ma non può fare tutto da sola, bisogna lavorare tutti insieme, il sinodo deve essere un cammino della comunità, non una mera riflessione.

Bergoglio diventa Francesco sei anni fa e in questo periodo il mondo è cambiato. Ora non c’è Obama ma c’è Trump, e nel frattempo è intervenuta la Brexit, sono emersi i sovranismi e nazionalismi: qual è oggi la sfida più grande per Papa Francesco?

Il problema che è emerso in questi anni è quello dell’identità. Non ho alcuna simpatia per tutti questi sovranisti sparsi per il mondo però capisco che loro gestiscono un problema identitario che i vari Obama degli ultimi decenni hanno trascurato in nome della globalizzazione, per questo arrivano Orban e gli altri a dire: “Prima gli ungheresi” (o gli americani, gli italiani...). La Chiesa dovrebbe affrontare seriamente il problema identitario riconoscendone l’importanza senza entrare in polemica con il sovranista di turno. L’identità è una grande questione e si muove su cerchi concentrici: c’è l’identità personale, familiare, locale, etnica, sociale, politica. Bisogna prendere sul serio questo problema partendo dal fatto che la realtà dell’uomo è molto complessa in quanto l’uomo, inteso come persona, è una rete di relazioni (familiari, sociali, politiche...) e qui entrano in gioco le realtà intermedie. È vero che oggi i corpi intermedi sembrano evaporati, per cui il sindacato non c’è più, il partito non c’è più, l’ideologia non c’è più. Però l’identità intermedia c’è, ci deve essere, sarà l’identità del borgo etrusco o della Padania, però è necessaria e su questa bisogna lavorare. Bisogna tener presente che l’identità viene dall’impasto tra interessi e realtà sociali. La classe operaia nacque dall’impasto degli interessi (orario, salario...) e di una mobilitazione sociale magari contro i cannoni di Bava Beccaris. La stessa identità italiana non è nata sui libri dei padri fondatori come Leopardi, Manzoni, Gioberti, ma è nata grazie a Garibaldi e a meccanismi di mobilitazione sociale e di interessi puntuali (“Vogliamo il Mezzogiorno”, “Vogliamo un pezzo di Austria”...). Oggi per fare identità bisogna stare dietro agli interessi e chi segue gli interessi intermedi sono le piattaforme (di servizi, di comunicazione...). Il vero ente intermedio oggi non è un ente ma è la piattaforma in cui si trova il contadino con lo chef stellato di Shanghai, che si ritrovano insieme in una piattaforma che noi chiamiamo “filiera enogastronomica”. Senza inseguire i corpi intermedi, bisogna invece andare a vedere dove sono gli interessi e chi ci sta agendo sopra. Se non si fa questo si finisce per fare molta retorica. Io che sono stato un cantore dei corpi intermedi oggi non ne parlo, li ho difesi anche contro Renzi, fautore della disintermediazione, che è stata una reazione non pensata. Vista la crisi del partito, del sindacato, della comunità montana, della provincia, si è detto “azzeriamoli”, creando un danno peggiore. Togliere tutto ciò che si trova in mezzo tra il leader politico e il cittadino è stata un’assurdità realizzata con l’illusione di poter parlare direttamente al popolo. In assenza di realtà intermedie questa è l’anticamera del populismo.

L’esempio delle Province è emblematico: nessuno aveva mai posto il problema delle province anche perché era la realtà più identitaria di tutte, per cui uno in Italia si sente molto più viterbese che laziale, cosentino che calabrese. A un certo punto scatta il no alle province: “costano troppo”, “troppe poltrone”... un giornalismo d’inchiesta monta quest’onda contro le province. All’epoca io scrissi due articoli per difendere le province ma non ci fu nessun altro con me su questa battaglia. Il corpo politico si lasciò convincere e le province furono abolite, salvo poi qualche anno dopo ripensare l’opportunità di ripristinarle, perché le province contengono entrambe le cose: l’identità e gli interessi e si tratta di identità tradizionali che sfidano il passare del tempo. Possiamo andare indietro di secoli e pensare al conflitto tra i comuni italiani, tra Perugia e Todi ad esempio, come aveva colto Riccardo Misasi nel suo saggio “Storia di un libero comune”.

Oggi il problema identitario si mescola con il fenomeno della paura sociale. Su queste pagine la scrittrice americana Marilynne Robinson ha parlato di “marketing del rancore”.

Il rancore è il figlio, anzi il lutto, di ciò che non è stato. Non c’è nessuno di più rancoroso di un coniuge che si è separato dall’altro: perché il matrimonio è fallito, è venuto a mancare, quella promessa è crollata. Il rancore oggi circola ordinariamente per tanti motivi: un matrimonio fallito, la perdita di un posto di lavoro, un concorso andato male... Questo rancore ordinario diventa un fatto sociale quando diventa collettivo, strutturale. In Italia l’ascensore sociale, che dal 1945 in poi ha fatto crescere praticamente tutti, a un certo punto si è fermato, per cui tutti siamo diventati ceto medio ma nessuno o pochissimi sono diventati classe borghese. La classe borghese è rimasta una piccola fascia elitaria (i figli del ’68, i figli dei professionisti...) ma il salto di qualità non c’è stato. Questo stop dell’ascensore genera un rancore indifferenziato difficile da affrontare. Si possono certo trovare dei capri espiatori: l’Europa, i governi precedenti, i migranti. Ma questo non è affrontare il problema alla radice. Ci vorrebbe invece una classe politica capace di spingere ancora verso quella mobilitazione sociale verticale che ha fatto grande l’Italia. E invece oggi i politici cercano di rassicurare il ceto medio (e facendo così generano ulteriori paure) coccolandolo con provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Bisogna rimettere in moto l’ascensore sociale perché se resta fermo cresce la paura dell’impoverimento, della regressione, per cui si cerca solo il colpevole, si fa saltare il sistema europeo, si chiudono i porti.

La chiesa, la religione può giocare un ruolo in questa crisi?

Ho provato a indicare questa strada nel saggio “Il Consolato guelfo”, che era una risposta al saggio di Misasi e prendeva spunto da quello di Paolo Prodi: “Il romano pontefice”. Nell’epoca dei comuni guelfi esistevano due autorità, quella civile e quella religiosa, la prima garantiva la sicurezza, la seconda il senso della vita. Questo sistema è necessario ancora oggi, ci vogliono queste due dimensioni, altrimenti la società non cammina. La persona che garantisce sicurezza non può dare senso alla vita, se chiudi i porti non puoi indicare un futuro ricco di senso. In Russia Putin ha bisogno del patriarca. Dal punto di vista laico si può garantire sicurezza anche abbastanza facilmente, più difficile è garantire quel “di più”. In Iran, dove si uccidono migliaia di persone al mese per garantire sicurezza però c’è anche la Sharia, la legge coranica a offrire un orizzonte di senso. E anche in Cina c’è una riscoperta di Confucio. C’è bisogno di una sicurezza che io definirei materna e non poliziesca, per cui il pedale della sicurezza va mitigato da un senso più umano, appunto materno, per tenere le due cose insieme, sicurezza e senso. Secondo me non lo puoi fare con la stessa persona ma invece la logica italiana, e in parte europea, vuole la concentrazione dei poteri nell’unico leader. In Occidente noi abbiamo un testo che può essere di grande aiuto, la Bibbia, importante però che non sia preso come libro delle risposte. Alcuni amici mi definiscono “talmudico” per dire una cosa in cui credo, che cioè non c’è una verità chiara e distinta che cala dall’alto ma devi andare a cercartela, provando a capire a suon di tentativi. Devi fare come il talmudista che prende un argomento, una frase, ci gira e ci rigira intorno... così anch’io sono 60 anni che faccio questo mestiere di sociologo e di questo ho fatto un mio piccolo talmud. C’è bisogno secondo me di un sano empirismo, non ci servono documenti pontifici o della conferenza episcopale, no, davanti a me la realtà si presenta come un problema concreto e io devo andarlo a vedere, a conoscere, ci passo e ripasso sopra, lo guardo da destra, da sinistra... Ho la sensazione che spesso nella chiesa italiana questo concetto non riesca a passare. Papa Francesco invece è empirista. Penso ai suoi discorsi da vescovo, ad esempio ad Aparecida, pieni di intuizioni geniali, come quello della realtà che non è una sfera ma un poliedro. Questa idea che una realtà sghemba non la puoi inquadrare in una sfera o in una piramide ma la devi rispettare nel suo essere sghemba è semplice quanto formidabile. Bene, questa cosa qui un vescovo italiano fa molta fatica a comprenderla, il vescovo italiano ha bisogno del testo codificato al quale obbedire. Proprio per questo è necessario, direi urgente, un sinodo poliedrico, sghembo, direi talmudico, che abbia una segreteria che non sia di redattori di testi ma di organizzatori di incontri. Da qui può ripartire la vitalità della chiesa italiana di cui tutta la società ha bisogno.

di Andrea Monda

martedì 21 maggio 2019

Enzo Bianchi "L'arte di scegliere - il discernimento"

Sabato 18 maggio 2019, alle ore 17.30, presso la chiesa di San Giuseppe a Rignano Flaminio, Enzo Bianchi ha presentato il suo libro "L'arte di scegliere -  il discernimento". Ha moderato mons. Romano Rossi, vescovo della diocesi di Civita Castellana

Avvenire: Il caso di Milano. Rosario in piazza, voci e critiche dal mondo cattolico

Redazione Internet lunedì 20 maggio 2019

Il rosario baciato e poi brandito nella piazza dei sovranisti per un evento elettorale, la richiesta di benedizione della Vergine Maria. E ancora i fischi rivolti a papa Francesco; tutto questo non è sfuggito a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, gesuita, che domenica su Facebook ha commentato l'uso improprio di segni e nomi della Chiesa: "Il 'Non nominare il nome di Dio invano' ci chiede di non usare il nome di Dio per i propri scopi". Oggi rosari e crocifissi mantengono una connotazione politica, "ma in maniera inversa rispetto al passato visto che se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio". Per il teologo infatti una "coscienza critica accompagnata da un sano discernimento dovrebbe aiutare a capire che non è un comizio politico il luogo per fare litanie (e in nome di valori che col Vangelo di Gesù nulla hanno a che fare)".

Dunque Spataro parla di uso improprio, sintomo di una debolezza, quella dell'identitarismo nazionalista e sovranista che ha bisogno di fondarsi anche sulla religione per imporsi. Una "strumentalizzazione" col solo scopo di ammaliare elettori, che da quei simboli sono moralmente attratti. "La coscienza cristiana, a mio avviso, dovrebbe sussultare con sdegno e umiliazione nel vedersi così mercanteggiata e blandita. Si facciano i propri discorsi, ma davanti a Dio bisogna togliersi i sandali", spiega il numero uno di Civiltà cattolica. Anche Famiglia cristiana domenica ha definito la manifestazione "sovranismo feticista", un tentativo di "giustificare la violazione sistematica del nostro Paese dei diritti umani". 

Tra i commenti più rilanciati c'è quello del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano: "Io credo che la politica partitica divida, Dio invece è di tutti. Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso". Parole molto simili a quelle usate dal cardinale Angelo Bagnasco in una intervista a La Stampa: "Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso - ammonisce il cardinale - Nessuno può appropriarsi dei valori cristiani".

Commenti arrivano anche dal segretario del Consiglio dei cardinali (il C9), il vescovo Marcello Semeraro, in una intervista a Repubblica: "È un'uscita esecrabile, di fronte alla quale non posso che citare un passaggio del documento sulla fratellanza umana firmato negli Emirati Arabi Uniti da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb: 'Dio, l'Onnipotente, recita il testo, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente'. Chi ha responsabilità di governo dovrebbe leggere e studiare questo testo". "Ritengo che sia scorretto usare il nome di Dio in questo modo. Ma non soltanto il suo nome - sottolinea - ma anche quello della Vergine. È una modalità strumentale dalla quale prendere del tutto le distanze. C'è poco altro da dire". "Credo non sia questo il tempo in cui tacere. Certo, c'è un abuso del nome di Dio del quale in tempi antichi è stato protagonista anche il mondo cristiano. Ma ora non può più essere così. Ed è proprio perché qualcuno di noi in passato ne ha abusato che possiamo oggi condannare chi fa altrettanto", aggiunge. A Salvini se lo incontrasse, Semeraro direbbe "che esiste il timor di Dio. Che da esso occorrerebbe ripartire".

Al Corriere della Sera l'arcivescovo Bruno Forte spiega che "il rosario usato a fini elettorali non rispetta la serietà della fede e ferisce i credenti. La preghiera non può essere usata a fini strumentali. Mi auguro che il ministro Salvini lo comprenda". Il teologo Forte Forte, chiamato da papa Francesco a segretario speciale degli ultimi sinodi, commentando il gesto del vicepremier Matteo Salvini. "Un conto è la fede, che si difende da se stessa e certo non ha bisogno di Salvini per essere difesa. Altro - sottolinea - è usare un simbolo sacro a favore della propria parte politica".


"È ora di finirla. Non possiamo più stare zitti di fronte alle sparate di un sempre più arrogante ministro della Repubblica". Lo ha scritto sul sito della diocesi di Mazara del Vallo (Trapani), il vescovo Domenico Mogavero. "Non possiamo più permettere che ci si appropri dei segni sacri della nostra fede per smerciare le proprie vedute disumane, antistoriche e diametralmente opposte al messaggio evangelico", ha aggiunto. "Chi è con lui non può dirsi cristiano perché ha rinnegato il comandamento dell'amore".

sabato 18 maggio 2019

Vatican Insider: Radcliffe: “Anche i populismi sono una forma di fondamentalismo”


DOMENICO AGASSO JR
TORINO
Chi è attratto da un fondamentalismo non riesce a confrontarsi con la complessità della vita. È il pensiero di Timothy Radcliffe, teologo e biblista di Oxford, uno degli autori cattolici più letti al mondo, che al Salone internazionale del Libro di Torino ha riflettuto sul tema «Credere al tempo dei fondamentalismi», politici e religiosi. Tra i quali inserisce anche i populismi.

Padre, quali rischi portano?

«L’incapacità di dialogare con le persone che pensano in modo diverso. Questo può portare un individuo a rinchiudersi in una bolla mentale. E tutto ciò viene aggravato dai moderni mezzi di comunicazione: gli algoritmi ci spingono a essere in contatto con individui che condividono i nostri pregiudizi e paure».

Chi si fa attrarre?

«Coloro che hanno difficoltà a confrontarsi con le ambiguità, la ricchezza e la complessità della vita. E la crescita del populismo - che è una forma di fondamentalismo - attira chi si sente lasciato indietro». 

Ci fa qualche esempio?

«Negli Usa a votare Trump sono state molte persone bianche escluse dalle élite che dominano la politica e i mass media. La stessa cosa è avvenuta con la Brexit in Gran Bretagna. I gilet gialli in Francia esprimono un desiderio di visibilità e dicono: “Guardatemi! Esisto!”. Questa rabbia di non essere presi in considerazione finisce con l’attirare anche i detenuti che si convertono all’islam e poi si arruolano nell’Isis».

Che ruolo ha il cristianesimo?

«Ha una risposta arguta e sottile al desiderio di identità, uno dei primi elementi efficaci del fondamentalismo. Se sei cattolico, sai chi sei. Appartieni a una comunità definita con le sue proprie tradizioni. Ma attenzione: ti viene anche insegnato che non sai pienamente chi sei. L’apostolo san Giovanni scrive: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”».

A livello laico quale atteggiamento serve? 

«Riconoscere la rabbia e la frustrazione di chi si sente marginalizzato».

Basterebbe questo?

«No. Occorre anche smontare gli assunti di base di ogni forma di fondamentalismo, e avere la forza per sfidare ogni risposta populista alle sofferenze di chi è messo da parte».

Che cosa devono fare i cristiani? 

«La Chiesa ha qualcosa di meraviglioso da offrire. Siamo parte di un’organizzazione locale, conosciamo il dolore della gente. Pensiamo a papa Francesco quando era arcivescovo di Buenos Aires: era immerso nella vita delle baraccopoli. Ma al contempo la Chiesa è anche l’istituzione più globale che esista, presente in ogni nazione. Per questo lo straniero è mio fratello. E Dio di solito visita le persone come uno straniero. Dobbiamo essere aperti alla presenza di Dio negli stranieri».

Questo articolo è stato pubblicato nell'edizione del 12 maggio 2019 del quotidiano La Stampa

Avvenire: Dopo il Sinodo. Fiducia, ascolto, accoglienza: è la Chiesa a misura di giovani


Da un grande processo partecipativo, quale il Sinodo sui giovani è stato, si generano naturalmente molte aspettative. Sia nei partecipanti sia in chi ha particolarmente a cuore le nuove generazioni risorge la prima domanda, quella che Pietro e gli altri apostoli si sentirono porre già a Pentecoste: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Se il tema dei lavori, prima ancora del «discernimento vocazionale », riguardava i giovani e la fede tout-court, allora è legittimo aspettarsi un esito del Sinodo che riguardi la fede stessa. In effetti, nell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit tra le linee di azione emerge la ricerca di vie nuove sia per l’evangelizzazione sia per il consolidamento di chi già ha iniziato a credere. Questo avviene nella consapevolezza, mai tanto esplicita in un documento magisteriale, che «una Chiesa sulla difensiva, che dimentica l’umiltà, che smette di ascoltare, che non si lascia mettere in discussione, perde la giovinezza e si trasforma in un museo» (n.41).

Al Sinodo si è riconosciuto – e papa Francesco cita continuamente il documento finale approvato dall’assemblea – che «un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse, non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, poiché sentono la sua presenza come fastidiosa e perfino irritante. Tale richiesta [...] affonda le radici anche in ragioni serie e rispettabili: gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea » (n.40). Si tratta di affermazioni cariche di responsabilità, che non hanno impedito uno sguardo in avanti. A tratteggiare il futuro è l’icona neotestamentaria dei discepoli di Emmaus: camminare con i giovani, fare la strada con loro anche se vanno in direzione sbagliata, suscitare domande, interrogarli, ascoltarli, e quindi annunciare. Cosa? I tre punti fondamentali che ci vengono ricordati dall'esortazione sono: Dio è amore, Cristo ci salva, ed è vivo, è qui in mezzo a noi. «Questo è una garanzia che il bene può farsi strada nella nostra vita, e che le nostre fatiche serviranno a qualcosa» (n.127). Papa Francesco educa la Chiesa a un nuovo rapporto col mondo contemporaneo. Essa non ne costituisce più il centro, né un credito di fiducia le è ormai dovuto, eppure ha un mistero vivo da condividere e personalità convincenti da giocare. È interessante che i giovani credenti siano riconosciuti non solo titolati ad annunciare la fede ma pionieri della missione tra i coetanei. Occorre ammetterlo: non è abitudine europea una missione in cui i laici, e nello specifico i giovani, vengano prima del clero nella condivisione del kerygma pasquale. Il Sinodo è però, in questo, chiarissimo: si tratta di una provocazione inaggirabile, su cui osare una storica verifica delle consuetudini pastorali. Il Papa indica a vescovi e preti la possibilità di intervenire solo dopo che il nucleo del Vangelo sia già stato trasmesso nell’a tu per tu dell’amicizia fra laici.

Ciò interroga, certo, sulla preparazione dei credenti e sulla coscienza missionaria di chi pure è ricco di esperienza ecclesiale, tuttavia apre gli occhi su un passaparola che tra giovani già esiste e che non ha avuto fin qui dignità pastorale. Elena, ad esempio, ha diciassette anni, da tre frequenta l’oratorio: coinvolta da alcune coetanee come animatrice, invitata da altri giovani alla catechesi, avanzando nel cammino di gruppo ha scoperto il sacramento della Riconciliazione. Dopo averlo celebrato più volte, esprime la sua gioia per la Chiesa che sta scoprendo e confida di cercare ormai da sola la liturgia domenicale anche in periodi di vacanza con la famiglia. Racconta di esser stata battezzata, ma poi di non aver ricevuto né Cresima, né prima Comunione. Si dimostra stupefatta alla proposta di celebrare questi sacramenti, pur essendo superata l’infanzia. Nel frattempo cresce la sua disponibilità al servizio dei più piccoli; coinvolge nella vita parrocchiale altre amiche; trova il coraggio di chiedere aiuto per gravi difficoltà economiche che travagliano la famiglia. Una storia semplice, del tutto ordinaria, ma in grado di interrogare e trasformare chi si è trovato ad accoglierla. Come scrive papa Francesco, «essere giovani, più che un’età, è uno stato del cuore. Quindi, un’istituzione antica come la Chiesa può rinnovarsi e tornare a essere giovane in diverse fasi della sua lunghissima storia. In realtà, nei suoi momenti più tragici, sente la chiamata a tornare all’essenziale del primo amore» (n.34).

Certo, diventare cristiani richiede, oltre il momento del primo annuncio, un consolidamento nella fraternità: la pastorale giovanile – leggiamo nell’esortazione – è sinodale, «vale a dire capace di dar forma a un 'camminare insieme'» (n.206), dove nessuno deve essere messo o mettersi in disparte e la fede possa maturare. Il Papa precisa che tale crescita non va confusa con un indottrinamento: occorre tenere a bada «l’ansia di trasmettere una gran quantità di contenuti dottrinali e, soprattutto, cerchiamo di suscitare e radicare le grandi esperienze che sostengono la vita cristiana» (n.212). Piuttosto – ed è uno dei passaggi chiave circa il da farsi – «creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere » (n.217). Anche al Sinodo tale approccio si è rivelato fecondo: a margine dei lavo- ri, ad esempio, le religiose hanno iniziato con i giovani a condividere la mensa. Ed ecco moltiplicarsi incontri, storie, racconti: Safa, dall’Irak, che si rivolse a Dio per la prima volta quando venne rapito e rischiò di essere ucciso; Oksana, che in Russia appartiene a una Chiesa che è minoranza; Yadira, che a Chicago aiuta le ragazze madri immigrate negli Usa. La loro vita è spazio di salvezza, la loro fede un appello alla conversione; incontrarli è stato entrare in uno spazio sacro e fare esperienza di Dio. Questi giovani hanno dato un contributo decisivo ai lavori sinodali: la loro presenza è stata fondamentale. Hanno fatto sentire la loro voce e chiedono agli adulti di avere tempo, di esserci, di stare con loro in maniera informale; desiderano persone che li ascoltino, non organizzatori impegnati sempre in altro. Non vogliono risposte: sanno bene di doverle cercare nella Parola e dentro di loro. Ci chiedono di aiutarli a fare emergere le domande, a dare un nome alle inquietudini e a fare un tratto di strada con loro.

Per questo tipo di accompagnamento papa Francesco propone un preciso modello di pastorale giovanile: «Fare casa in definitiva è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana» (n.217). Non un nido né una fuga, ma tra giovani ed educatori il luogo franco in cui non dissimulare la propria fragilità, guadagnandovi il coraggio delle decisioni. La giovinezza, infatti, «non può restare un tempo sospeso: essa è l’età delle scelte e proprio in questo consiste il suo fascino e il suo compito più grande» (n.68). Francesco può permettersi di essere molto diretto: «Tu devi scoprire chi sei e sviluppare il tuo modo personale di essere santo, indipendentemente da ciò che dicono e pensano gli altri. Diventare santo vuol dire diventare più pienamente te stesso, quello che Dio ha voluto sognare e creare, non una fotocopia. La tua vita dev’essere uno stimolo profetico, che sia d’ispirazione ad altri, che lasci un’impronta in questo mondo, quell’impronta unica che solo tu potrai lasciare. Invece, se copi, priverai questa terra, e anche il cielo, di ciò che nessun altro potrà offrire al tuo posto » (n.162). Per un’esperienza cristiana di questo tenore occorre una Chiesa diversa dalla gloriosa istituzione che per secoli ha presidiato la socialità. Una madre che accolga, riaccolga e ai suoi figli metta le ali, infondendo libertà e fiducia.
Alessandra Smerilli e Sergio Massironi venerdì 17 maggio 2019

mercoledì 15 maggio 2019

Roberto Saviano - In mare non esistono taxi - Che tempo che fa 12/05/2019

Roberto Saviano, ospite di "Che tempo che fa", presenta il suo nuovo libro "In mare non esistono taxi". "Non è vero che nessuno sta morendo in mare", ha detto, "mancano i testimoni. Stanno diminuendo i testimoni, non le partenze. I migranti non vengono salvati dalla Guardia costiera libica, ma vengono rinchiusi nei campi di concentramento. E quelli che partono continuano ad annegare. Oggi muore il 12 per cento. Nel 2017 il 2 per cento". 


mercoledì 8 maggio 2019

L'Osservatore Romano: Ricreare la dignità dell’umano

Il compito degli evangelizzatori nell’attuale crisi epocale

Quando Francesco dice di vedere «la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia» suggerisce che a essere gravemente ferita oggi è la stessa vita umana, la sua possibilità, la sua legittimità e il suo significato. È importante domandarsi allora, per discernere che cosa l’ha ferita e continua a ferirla, qual è la battaglia alla quale può riferirsi il Papa. Alla luce di quanto ho potuto leggere e su cui ho potuto riflettere, cercherò d’interpretare — con grande libertà — questa battaglia in due modi, o, se si preferisce, a due livelli di profondità. In primo luogo, potrebbe alludere alla globalizzazione economica e finanziaria, generatrice di esclusione e d’iniquità nel mondo. In secondo luogo, potrebbe riferirsi alle due grandi guerre del XX secolo e ad altre violenze, che hanno segnato il tramonto delle grandi illusioni e ideologie del mondo moderno, e il progressivo avvento di quello che possiamo chiamare il nichilismo postmoderno.

Prima di affrontare queste due interpretazioni, conviene chiarire che il fatto di parlare di malattia o di ferita epocale non significa essere ciechi o indifferenti alle molte e meravigliose realtà, frutto della creatività umana, che popolano il nostro mondo e che ci permettono, in molti ambiti, di vivere meglio che in passato. «A nulla serve — dice Kasper — limitarci a criticare il mondo moderno e le persone di oggi (tra cui ci siamo anche noi); dobbiamo volgerci con misericordia verso la situazione attuale e affermare che, sulla nebbia che avvolge il nostro mondo, e spesso anche sulle tenebre di quest’ultimo, regna il volto di un Padre che è magnanimo e benevolo e conosce e ama ogni singolo individuo, un Padre che sa di che cosa abbiamo bisogno [...]. Per questo la Chiesa non deve fare prediche dall’alto del pulpito a quanti l’ascoltano con l’atteggiamento di chi crede di sapere tutto». È vero, un atteggiamento meramente critico, esercitato da una pretesa onniscienza screditatrice, è sterile e ingiusto. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che oggi è in atto una crisi grave, profonda. E bisogna cercare di discernerla evangelicamente, evitando avvilenti pessimismi ma anche falsi ottimismi. Queste considerazioni potrebbero essere un primo elemento da tener presente nella nostra Facoltà «ospedale da campo», nella nostra teologia attenta alla finalità evangelizzatrice della Chiesa.

Passiamo ora al primo livello d’interpretazione. Seguendo gli orientamenti del secondo capitolo della Evangelii gaudium e del messaggio del 1° gennaio in occasione della xlVII Giornata mondiale della pace, si può pensare che la ferita del mondo attuale abbia a che vedere con una crisi dell’economia, ossia, del significato che questa ha ormai assunto per l’umanità: non più l’attività attraverso la quale gli individui e le società usano e gestiscono le risorse per soddisfare i propri bisogni, ma quella comprensione totalizzante e riduttiva dell’uomo come mero homo œconomicus, un essere di produzione e consumo, asservito a desideri e appetiti elementari, stimolati dall’insaziabile strategia competitiva e commerciale di un “macchinario” che genera esclusione e sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. A questa triste realtà — nella quale l’essere umano si trasforma in un oggetto monouso, un “avanzo” — fa insistentemente riferimento Papa Francesco: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (Evangelii gaudium, n. 53).

In questa situazione, che si è globalizzata, i poveri subiscono l’iniquità. E i più ricchi subiscono, molte volte senza saperlo, la schiavitù di «nuovi idoli... [il] feticismo del denaro e [la] dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (ibidem, n. 55). A loro si rivolge in modo particolare Francesco: «La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (ibidem, n. 208). Seguendo questa linea di pensiero, possiamo domandarci con Kasper: «Di che cosa ha bisogno un essere umano in quanto essere umano e che cosa gli corrisponde per poter vivere degnamente, il che vuol dire anche: con misurata autodeterminazione?». E afferma: «quello che corrisponde all’uomo come uomo non sono né possono essere soltanto beni materiali... Quello che corrisponde all’uomo in quanto uomo, e ciò significa in quanto essere libero, è, soprattutto, il riconoscimento della sua dignità umana. Quello che si deve a ogni essere umano in virtù della sua dignità sono il rispetto, l’accettazione e l’affetto personali».

A partire da questo primo avvicinamento alla ferita epocale, facciamo un ulteriore passo e affrontiamo il secondo livello d’interpretazione della stessa. In realtà si tratta di ciò che si nasconde dietro la prima interpretazione: nella crisi dell’economia si manifesta una crisi antropologica, una crisi riguardo alla comprensione che l’uomo attuale ha di se stesso. Anche di questo Papa Francesco parla nell’intervista, quando afferma: «Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi». [...]

È qui che la Chiesa, attraverso una teologia attenta e sensibile al dramma epocale, alla crisi antropologica, cercherà di sviluppare una razionalità allargata, ampia, inclusiva, che, a partire dalla fede, tocchi e curi la razionalità ferita dell’uomo attuale e gli presenti un orizzonte più grande di quello del nichilismo. Tale teologia, che può contribuire alla legittimazione dell’autenticamente umano, o dell’umano più che umano, non si dovrà allora presentare come “teologia da tavolino”, ossia, come un discorso teorico già conosciuto e decontestualizzato, astratto. Come afferma Gagey, «alla messa in discussione dell’uomo da parte del nichilismo, il credente sa che cosa rispondere. Sa che il fine ultimo dell’uomo sta nel Dio che gli dà Vita (san Giovanni), che gli apre le porte del regno (sinottici), che lo giustifica (Paolo). Ma oggi queste risposte suonano come risposte di catechismo dal momento che ancora non sono state pensate, ossia, non sono state sperimentate ed enunciate nuovamente a partire da un confronto rigoroso con il contesto contemporaneo in ciò che esso ha d’inedito nella storia dell’umanità. Quel che serve, come direbbe De Lubac, è l’intelligenza, per mezzo della fede, della condizione dell’uomo post-moderno.[…]

Infine, a partire da questa esperienza dell’amore di Gesù, la risorsa della vita teologale: fede, speranza e carità. Se a partire da esse riaffermiamo — come pensava Pascal — che l’uomo supera infinitamente l’uomo, allora potremo sospettare — come sostiene Bertrand Vergely — che il nichilismo attuale è mosso anch’esso — come noi credenti — sebbene oscuramente e senza riconoscerlo, dalla sete di assoluto: «non vuole nulla perché vuole tutto». Questa scoperta può segnare l’inizio di un incontro evangelizzatore inatteso e inedito con l’uomo postmoderno, incontro a cui potrebbe guidarci, con ineguagliabile maestria, il nichilismo evangelico di san Giovanni della Croce: «Per poter gustare il tutto, non cercare il gusto in nulla. Per poter possedere il tutto, non voler possedere nulla. Per poter essere tutto, non voler essere nulla. Per poter conoscere il tutto, non voler sapere nulla...». Da queste parole traspare il paradosso centrale della nostra fede: la pienezza sovrabbondante di Dio — il tutto, l’assoluto — si mostra e si offre a noi nel vuoto, o meglio nello svuotamento da ogni idolatria e da ogni antropolatria. Questo paradosso, questa razionalità paradossale, deve abitare e strutturare il pensiero teologico, rendendolo pienamente teologale.

Perciò, a mio giudizio, il riferimento a san Giovanni della Croce può risultare decisivo per far sì che la teologia adempia oggi alla sua funzione evangelizzatrice. Come segnala bene Alain Cugno, nel pensiero del mistico spagnolo c’è un’antropologia incentrata sul desiderio e sull’azione divinamente annichilatrice delle tre virtù teologali sulle potenze dell’anima: la speranza svuota la memoria, la fede provoca tenebre nell’intelletto, la carità crea nudità nella volontà. Vuoto, tenebre, nudità: si tratta di un nichilismo anti-idolatrico che, nella sua verità più profonda, è, paradossalmente, un anti-nichilismo, poiché in esso si realizza efficacemente la partecipazione della creatura umana alla kenosis pasquale di Cristo. Pertanto il suo compimento non sta nella distruzione bensì in una eminente decostruzione teologale che libera il desiderio dalla sua naturale immanenza per aprirlo paradossalmente, attraverso l’assenza dell’Amato, a una trascendenza che anticipa, fin d’ora, l’anelata unione con Dio, l’agognata coincidenza tra desiderio e pienezza. Questo evento ineffabile, lungi dal farci abbandonare la razionalità, ci permette di ritrovarla, ma ora allargata, ampliata, rinnovata a partire da Dio; e ci consente di sperimentare che ciò che sembrava superficiale e insipido ha, in realtà, una profondità infinita. Tutta la sfida sta nel riuscire a rendercene conto, nel diventare attenti a questo “non so che” di un sapore molto particolare e tenue, appena percettibile, un sapore dell’ordine del dilettevole e gioioso.

Mettendo in atto queste e altre risorse provenienti dalla sua ricchissima tradizione, la teologia renderà desiderabile tutto ciò che è cristiano, non solo a livello astratto, ma anche come antropologia vissuta, vissuta nella comunione festosa, in una nuova «immaginazione della carità» (Giovanni Paolo II). Jean-Luc Marion ha detto, in una recente intervista, che «per vivere umanamente, bisogna vivere un po’ divinamente». Questo vivere un po’ divinamente fiorisce là dove si riconosce che la creatura umana è divina, ossia amata, amata per qualcosa che la trascende. «L’amore non è qualcosa che dobbiamo difendere noi, ma qualcosa che ci difenderà... È così che si esce dal nichilismo».

Concludo questa riflessione, volta a proporre una teologia evangelizzatrice ed evangelizzata, evangelizzatrice perché evangelizzata anche dalla crisi epocale, il cui punto di partenza è la Chiesa come ospedale da campo, che cerca di discernere la ferita essenziale dell’uomo attuale, e che, alla fine, cerca di guarire e di ricreare la dignità dell’umano aprendolo, a livello individuale e comunitario, a un plus dilettevole di vita e di amore. L’essere umano non è abbandonato e solo in un universo indifferente dove nulla ha senso. Al contrario: «La verità più profonda sull’essere umano — afferma Kasper — è che Dio, nel suo amore, ci ha creati miracolosamente e che poi, quando ci siamo allontanati da lui, non ci ha dati per persi, ma anzi ci ha ristabiliti e ha ristabilito la nostra dignità in un modo ancora più meraviglioso... Questo messaggio del Dio della compassione lo possiamo proclamare in modo credibile solo se anche il nostro linguaggio è segnato dalla compassione».

07 maggio 2019
di Fernando J. Ortega

martedì 7 maggio 2019

Redenta in «modo sublime»

Nel segno di Maria


Da Maria Sorella alla valorizzazione delle donne nella Chiesa
Il titolo di «sorella nostra» dato a Maria è antico, sebbene poco frequente. Ai suoi inizi esso esprimeva soprattutto venerazione, mentre oggi serve a indicare la Vergine di Nazaret in una prospettiva storica ed esistenziale. 

La teologia deduca 
dalla realtà di Maria Sorella 
la valorizzazione delle donne 
nella Chiesa 

Ormai è giunta l’ora di rilanciare, con più convinta ragione teologica e con accresciuto entusiasmo testimoniale, lo sforzo prodotto dalla mariologia negli ultimi anni di pensare Maria di Nazaret come la Sorella (cfr. S. Pintor, Maria sorella nella fede, Bologna, Dehoniane, 1979; V. Vacca, Sorella, in Nuovo Dizionario di Mariologia, a cura di S. De Fiores e S. M. Meo, Cinisello Balsamo, Paoline, 1985, pp. 1323-1326).

In verità molti Padri della Chiesa (da Atanasio a Epifanio, da Agostino a Cirillo d’Alessandria) si riferivano a Maria come a una Sorella di fede. Con felice intuizione Paolo VI ha rilanciato questa verità mariana nel cuore del Concilio: «Pur nella ricchezza delle mirabili prerogative di cui Dio l’ha onorata — ha affermato — per farla degna madre del Verbo incarnato, essa tuttavia è vicinissima a noi. Figlia di Adamo come noi, e perciò nostra sorella per vincoli di natura. Essa però è la creatura preservata dal peccato originale in vista dei meriti del Salvatore» (Discorso conclusivo del 3° periodo, 8.11.1964).

I teologi dall’ultimo brano del secolo XX a oggi, specialmente le donne teologhe, hanno appuntato la loro attenzione su questo aspetto dell’identità personale della Madre messianica. Oggi, la percezione della presenza di Maria Sorella dentro la Chiesa illumina sempre di più la comune esperienza di fede e incoraggia la teologia mariana a offrire forti motivazioni per portare le donne verso una più ampia partecipazione alle molteplici e diversificate responsabilità nella Chiesa. 

Uomini e donne 
insieme a Maria Sorella 
collaborano alla plantatio regni 

La sororità di Santa Maria è un delicato spazio umano e di mistero nel quale le donne possono ritrovarsi nella Chiesa e vivere in essa l’esercizio di tutte le funzioni loro proprie a livello di vocazioni, carismi e ministeri. Maria, come Sorella maggiore, con tutti i discepoli e le discepole di Gesù, prende parte alle sorti dell’unica famiglia ecclesiale, al comune impegno missionario di portare a tutti la consolazione del Vangelo, la testimonianza del perdono e della misericordia, i segni sacramentali della salvezza, pellegrinando e lodando Dio sul motivo del canto liberante e profetico del Magnificat, traccia d’oro per realizzare la plantatio regni.

Quest’opera santa e impegnativa i discepoli e le discepole del Signore la potranno compiere in modo gioioso ed efficace proprio con la compagnia di Maria sorella che di quel Regno è icona, ossia segno verace della trasformazione del mondo, della Chiesa e del cosmo (cfr. C. Militello, Maria nostra sorella, in «Ephemerides Mariologicae», 55 [2005] 269-284). Insomma, la missione vissuta con Maria sorella, non divide mai, ma include e unisce sempre.

Una presenza delle donne dentro la Chiesa con nuove importanti responsabilità, la teologia potrà motivarla anzitutto collegando con piena evidenza la Vergine di Nazaret all’unica razza umana, in particolare alla vita delle donne e alla loro appartenenza alla Chiesa. Una seria “teologia della donna”, tanto auspicata da Papa Bergoglio, può avvantaggiarsi proprio meditando su Maria Sorella, «vedendo nella sua beatitudine un segno di capacità di tutte le donne di mostrare l’immagine e la somiglianza di Dio (...). Fedele a Dio attraverso ogni incertezza, diventa parte della storia della comunità. Compagna nella memoria, attraverso la solidarietà (...) diventa compagna nella Speranza. È sovversivamente, vera nostra sorella» (E. Johnson, Vera nostra sorella. Una teologia di Maria nella comunione dei santi, Brescia, Queriniana, 2005, pp. 593-595). 

Maria Sorella ricorda 
che non solo gli uomini 
sono la Chiesa 

Il titolo mite ed evangelico di sorella riferito a Maria fa respirare di fatto un’atmosfera amabile dentro la Chiesa: niente più di un clima fraterno e sororico rende bella la vita comunitaria (cfr. Salmo 133, 1-3) e mai questa stessa vita diventa insopportabile come quando manca il sentore del fonte battesimale dove si è diventati figli e fratelli, figlie e sorelle. Talune volte c’è il brutto vezzo di opporre mondo maschile e mondo femminile, o si incappa nel rischio di avvicinarli così tanto da congiungerli in modo fusionale o, all’opposto, si esaspera la loro specificità, cadendo in una insopportabile parzialità: si enfatizza la “storia di lui” (his-story) o la “storia di lei” (her-story), sconnettendo “storie” che dovrebbero incrociarsi almeno per avere una stessa conclusione, dal momento che trattano sostanzialmente dello stesso tema: l’umano e il femminile.

Invece, la sapienza sta nel perseguire una feconda riconciliazione fra queste due “storie”, trattandole con modalità comunicative inclusive e soprattutto usando le calde logiche della reciprocità e dell’integrazione dentro lo straordinario ovale della fraternità e della sorellanza (cfr. A. Gentili, Se non diventerete come donne, Milano, Àncora, 1988). Assieme al suo Figlio Gesù e Fratello necessario dei discepoli, Maria Sorella collabora a fondare e a far crescere fratellanza e sorellanza, la cui orizzontalità di grazia deriva dalla verticalità misterica della sua maternità e di quella ecclesiale: infatti la Maria e la Chiesa sono una sola Madre (cfr. Isacco della Stella, Sermone 51). 

L’aria sororica e fraterna 
necessaria alla vita di Chiesa 

Figlia di Adamo come noi, appartenente alla stirpe di Abramo padre della fede, Maria è sorella di tutti gli uomini e di tutte le donne. Infatti, lei non è “fuori” dalle situazioni umane, ma è da esse interamente avvolta. È «vera sorella nostra» per vincoli di natura e di grazia: la sua fede è la nostra fede; la sua speranza è la nostra speranza; il suo servizio al Signore è quello che ognuno di noi è chiamato a esercitare. Il clima di famiglia che la presenza di Maria Sorella stimola nella Chiesa si manifesta in diverse esigenze di comunanza e di solidarietà di condivisione. 

Essere solidali con la famiglia 
creaturale di Adamo 

In quanto parte del cosmo, Maria ricorda a tutti che siamo chiamati alla stessa meta delle altre creature. In quanto membri della famiglia di Adamo, condivide con noi la natura umana, sottomessa all’esperienza del dolore e al mysterium mortis, ma pur sempre nell’orientamento alla pienezza del Bene, della Verità e della Bellezza. 

Godere 
con la famiglia 
credente di Abramo 

Maria è figlia di Abramo: appartiene perciò alla discendenza del popolo eletto e invita a riconoscere nel Patriarca il padre nella fede. Perché è la Credente, Maria Sorella aiuta quanti camminano al lume della fede, specie nelle ore più buie, lei che nelle tenebre del Sabato Santo ha creduto nonostante tutto, incitando i discepoli e le discepole di Gesù di tutti i tempi, a credere comunque, a credere ancora (cfr. M. G. Masciarelli, Credere ancora, Todi, Tau Editrice, 2012). 

Sentirsi responsabili
del popolo di Dio

In quanto Sorella, Maria si è fatta vicina al suo popolo d’origine e ai suoi familiari ed è compagna di tutti noi. Eletta da Dio per essere Madre del Verbo incarnato, è paradossalmente anche una Sorella del popolo redento dal suo Figlio Gesù. Perciò, è partecipe delle vicende liete e tristi del popolo di Dio pellegrino verso la Patria trinitaria. Di più: il vincolo di sororità, che la lega alla stirpe di Adamo e la rende solidale con ogni persona, si approfondisce con la sua condizione discepolare in rapporto a Gesù Maestro.

Nessuno è superiore 
al battistero e all’àgape 

Il titolo di Sorella riferita a Maria dice che lei è un frutto della redenzione, sebbene «il più eccelso» (Sacrosanctum Concilium, n. 103): come noi, lei è stata redenta da Cristo, ma in «modo sublime» (Lumen gentium, nn. 53) e differente rispetto alle altre creature. Su questo sfondo salvifico che unisce, nella specificità ora ricordata, Maria agli uomini e alle donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi, rende la compagnia della solidarietà di una umanità integra e di una fede limpida e coraggiosa.

Ora, è bene tornare al tema che sta orientando questa serie di interventi sul mistero della Vergine di Nazaret, e cioè che è necessario recuperare la piena presenza attiva delle donne nella vita della Chiesa perché è un loro diritto creazionale e battesimale potervi esprimere tutte le potenzialità di natura e di grazia che hanno ricevuto dal Dio trinitario. Questo, in coerenza con la loro realtà vocazionale, carismatica e — da non dimenticare — con la loro condizione sacramentale.

Maria Sorella ricorda l’uguale creaturalità, la stessa sorte di grazia di salvati (sebbene in differenti modi), la comune appartenenza alla Chiesa. Questa Sorella chiede che i discepoli e le discepole di Gesù meditino sul fatto che nessuno, dentro la Chiesa, è superiore fonte battesimale e all’àgape eucaristica nell’atto di assumere il Pane di vita eterna e la Bevanda di salvezza.

di Michele Giulio Masciarelli

sabato 4 maggio 2019

Festival delle Religioni 2019: Enzo Bianchi, "Il tempo della preghiera"

IL TEMPO DELLA PREGHIERA” | Festival delle Religioni 2019


SIR: Maria: Virgili (biblista), “una donna trasgressiva che insegna alla Chiesa il gioco di squadra”


Maria? Una donna "trasgressiva", che ha il coraggio di scegliere, di lottare e di andare controcorrente, pur di realizzare il sogno di Dio. Tramite "un lavoro di squadra" con sua cugina Elisabetta e le altre donne. A soffermarsi sull'"autorità" della Madre di Gesù, nel mese tradizionalmente a lei dedicato, è la biblista Rosanna Virgili, che esorta ad abbandonare una lettura "dolciastra e melensa" tipica di un certo devozionismo mariano e a riflettere, partendo dalla figura di Maria, sull'importanza del ruolo delle donne nella Chiesa. Questione decisiva per la sua stessa sopravvivenza, in tempi di "clericalismo" e di regressione della questione femminile


“Uno squarcio di luce nel cielo”, una donna la cui “autorità” deriva dalla capacità di fare scelte coraggiose e controcorrente, foriere di “una profezia sempre valida” che ha il suo simbolo più eloquente nel Magnificat: “il testo letterario più bello del mondo, insieme alle Beatitudini”, dove la Madre di Gesù anticipa e ricapitola il sogno di Dio. La biblista Rosanna Virgili descrive così – per il Sir – la figura di Maria, all’inizio del mese tradizionalmente a lei dedicato. E ammonisce: “La questione della donna è decisiva nella Chiesa, che ha estremamente bisogno dell’apporto femminile. Il mese mariano può essere l’occasione per una rilettura in chiave più contemporanea, e non dolciastra e melensa, della figura di Maria. Non c’è futuro nella Chiesa se alle donne non si riconoscono, semplicemente, i servizi che svolgono. In un tempo come il nostro, in cui il clericalismo sta risorgendo, la Chiesa è spacciata, se invece di progredire torna indietro sulla questione femminile”.


La devozione mariana accompagna il pontificato di Francesco fin dal suo esordio. Cosa significa per il Papa, e per la Chiesa, il mese mariano che tradizionalmente celebriamo a maggio?
Fin all’inizio Papa Francesco ci ha rivelato la sua speciale devozione alla Madonna dei nodi. Credo sia stato un messaggio che si è radicato fortemente presso i cattolici. Ognuno ha un aspetto della Madonna, o un Santuario, un “particolare” a cui si affida: la devozione mariana è molto diffusa, anche in Europa, e questo è molto bello. Chi è Maria? È quella persona che, dentro il nostro pantheon religioso dove trovano posto Gesù e il Padre, interviene nei momenti dei nodi difficili che a volte ci stringono nella vita. La Madonna che scioglie i nodi, tanto cara a Bergoglio, è una metafora di tutto questo. L’altro aspetto tipico del pontificato del Papa argentino è l’accento così forte che pone sulla maternità della Chiesa: la Chiesa come madre, la cui grandissima icona è la Madre di Gesù. Si tratta di un aspetto che connota profondamente l’attuale pontificato: il rapporto con Maria come madre e il desiderio di proporre la maternità come cifra stessa della Chiesa. Già i Padri della Chiesa, quasi due millenni fa, avevano fatto questo accostamento, ma Francesco ha avuto il merito di riportarlo alla ribalta.

“La Chiesa è madre, Maria è più importante degli apostoli”, ripete il Papa, che a più riprese ha auspicato una maggiore presenza delle donne nella Chiesa, “là dove si prendono le decisioni”, come si legge nell’Evangelii gaudium.
È un nodo che spero che la Madonna possa sciogliere. Il Papa ha detto chiaramente che l’eventuale disagio delle donne cattoliche è dovuto al fatto che, nella Chiesa, l’autorità è affidata esclusivamente ai vescovi, in quanto successori degli apostoli. La donna non ha accesso a nessun tipo di autorità: si trova a non avere i “munera” che, invece, spettano al clero. Francesco ha ragione, Maria era più importante di tutti gli apostoli: nei Vangeli è così, la Madre di Gesù ha auto un’autorità che nessun altro ha avuto, umanamente parlando. Tuttavia, a mio avviso la figura di Maria va riletta da questo punto di vista.

La tradizione cattolica, infatti, tramite la figura di Maria ha veicolato un femminile remissivo, docile, di retroguardia.

Ma la figura della Madonna va ben oltre e il suo vero “ritratto” è ancora tutto da affrontare. In questo senso, le riforme auspicate dal Papa sono davvero urgenti. La questione della donna è decisiva, nella Chiesa, che ha estremamente bisogno dell’apporto femminile. Il mese mariano può essere l’occasione per una rilettura in chiave più contemporanea, e non dolciastra e melensa, della figura di Maria.

Se dovesse tracciare un ritratto “aggiornato” della Madre di Gesù, quali pennelli userebbe?
Oltre alla verginità e alla maternità – tratti costitutivi della figura di Maria che andrebbero riletti nel 2019 tenendo conto che per tante donne molte cose sono cambiate intorno a questi due temi – tra i tanti aspetti della Madre di Gesù ce ne sono alcuni estremamente eloquenti. Innanzitutto, la scelta:

Maria sceglie da sola, quando l’Angelo va da lei, e dimostra uno straordinario coraggio, in un’epoca in cui le donne non venivano neppure salutate, perché considerato soltanto mogli, madri, figlie o sorelle di un maschio.

Poi l’uscita dal privato: Maria aveva già una sua vita, era già promessa sposa, cioè come se fosse sposata. Per mettersi a servizio di un servizio più grande, ha lasciato tutto per il suo popolo e per il mondo: una lezione importante per le giovani donne di oggi, molto ripiegate su se stesse. Maria, inoltre, ha voluto vedere, “navigare” il futuro: è stata trasgressiva sulle leggi. Se a Giuseppe non fosse apparso in sogno l’Angelo, sarebbe stata rimandata al padre che l’avrebbe fatta lapidare pubblicamente perché era incinta.

Ha avuto il coraggio della trasgressione per un bene più grande: una lezione, questa, che potrebbe essere utile all’Europa, che si sta richiudendo, e anche alla Chiesa.


Quand’è, infine, che Maria dice sì all’Angelo? Quando apprende che anche sua cugina Elisabetta sta per partorire. È questa notizia che la sblocca: Maria sa che da sola non può realizzare questo grande sogno, ha bisogno della compagnia di una sorella, di un’amica. Questo dice molto a un Occidente individualista e a tanti giovani spesso soli, incapaci di relazioni. La Visitazione è la realizzazione dell’inizio del Vangelo: insieme, Maria e Elisabetta si rivelano l’una all’altra. Tramite il suo rapporto con lei e con le altre donne, Maria indica che c’è una comunità: insegna alla Chiesa l’importanza di un lavoro di squadra. La Chiesa, invece, fa fatica a lavorare insieme: basti pensare alla frattura tra maschi e femmine, giovani e vecchi, laici e chierici.