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domenica 28 aprile 2019

L'Osservatore Romano: Amare Dio liberamente

Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale (Cti), intitolato La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee, vuole essere una riflessione teologico-ermeneutica con «un duplice intento: In primo luogo, proporre un aggiornamento ragionato della recezione di Dignitatis humanae. In secondo luogo, esplicitare le ragioni della giusta integrazione — antropologica e politica — fra l’istanza personale e quella comunitaria della libertà religiosa» (n. 12).

Il documento inizia ricordando l’insegnamento della dichiarazione conciliare e la sua recezione da parte del magistero e della teologia, dopo il concilio Vaticano II (capitolo 2). Poi, a modo di quadro sintetico dei principi, soprattutto antropologici, della comprensione cristiana della libertà religiosa, riflette sulla libertà religiosa della persona dapprima colta nella sua dimensione individuale (capitolo 3) e quindi nella sua dimensione comunitaria, sottolineando tra l’altro il valore delle comunità religiose come corpi intermedi nella vita sociale (capitolo 4). I due aspetti sono inseparabili nella realtà; tuttavia, poiché il radicamento della libertà religiosa nella condizione personale dell’essere umano indica il fondamento ultimo della sua dignità inalienabile, appare utile procedere in questo ordine. Successivamente si considera la libertà religiosa nei confronti dello Stato e si offre qualche puntualizzazione a riguardo delle contraddizioni iscritte nell’ideologia che intende lo Stato come religiosamente, eticamente e assiologicamente neutrale (capitolo 5). Nei capitoli finali, il documento si sofferma sul contributo della libertà religiosa alla convivenza e alla pace sociale (capitolo 6), prima di mettere in rilievo il posto centrale della libertà religiosa nella missione della Chiesa oggi (capitolo 7) (cfr. n. 11).

Lungo il percorso della riflessione, compaiono i punti chiave della dottrina pontificia riguardanti il fondamento della libertà religiosa, individuato nella dignità della persona, e si riprendono anche diversi documenti della Cti relativi a tali fondamenti: concezione della persona, dei diritti umani, della libertà e della coscienza, del bene comune, del rapporto fra religione (fede), etica e stato, fra religione e violenza, ecc... È questo l’ineludibile aspetto di continuità sia con il magistero conciliare e pontificio, sia con la riflessione della stessa Cti.

La novità si trova nello scopo principale del documento. Esso non ha voluto essere un testo accademico sui molti aspetti del dibattito sulla libertà religiosa, bensì la proposta di un approccio teologico-ermeneutico di fronte ai principali cambiamenti culturali, sociali, politici e religiosi che, a distanza di 50 anni della chiusura del concilio Vaticano II, urgono un approfondimento delle ragioni ultime della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa.

Si riflette dunque sul cambiamento del contesto religioso nella seconda metà del secolo XX, tenendo presente sia la permanenza del fatto religioso nel mondo, sia la spiegazione che se ne dava nelle teorie della secolarizzazione. Oggi, per la Cti, pare opportuno parlare di libertà religiosa perché il fenomeno religioso è significativamente rilevante nella cultura globale, in un modo diverso da ciò che ci si poteva aspettare negli anni Sessanta del secolo scorso. In particolare — almeno per quanto riguarda alcune tradizioni religiose — esso dimostra la vitalità della dimensione comunitaria della religione e il rilievo sociale della questione della verità.

In secondo luogo, si affronta il problema della libertà religiosa in relazione alla cultura politica liberale, in quanto essa è diventata il linguaggio condiviso internazionalmente, e in quanto le sfide che presenta sono particolarmente impegnative per la libertà religiosa. L’evoluzione della cultura politica liberale nei confronti della libertà religiosa, negli ultimi cinquant’anni, è molto significativa; era quindi necessario rendere conto sia dell’evoluzione in senso individualistico e soggettivistico dei diritti umani, sia della portata della cosiddetta “neutralità” dello Stato. Il documento, comunque, sostiene una visione positiva del legittimo ruolo dello Stato come tale per la vita della comunità sociale e politica.

Si è cercato, in terzo luogo, di sottolineare la chiarezza dell’odierna coscienza ecclesiale nei confronti di una qualsiasi tentazione di egemonia o di strumentalizzazione del potere politico, fosse pure al servizio della religione. Si sostiene che la testimonianza integrale della “fede che agisce per la carità” — in modo personale o associato — è la strada adeguata alla diffusione del Vangelo nel mondo plurale di oggi. Si sottolinea la necessità di una positiva collaborazione fra la dimensione religiosa e la dimensione politica nella vita pubblica, evitando ogni confusione o contrapposizione. Si è forse oggi — pur nelle evidenti differenze geografiche e storiche — in una condizione più simile a quella del primo annuncio evangelico in culture non cristiane che a quella delle situazioni di cosiddetta “cristianità”.

Questa coscienza ecclesiale approfondita consente di avere un criterio ragionevole per vagliare le tradizioni religiose e per discutere le ambiguità della pretesa neutralità della cultura politica liberale. Si offre quindi un criterio di giudizio non soltanto per i rapporti con gli Stati — classico ambito di riflessione sulla libertà religiosa — ma anche per il dialogo interreligioso. In questo senso si riconosce l’evoluzione della coscienza ecclesiale per articolare l’orizzonte proprio di Dignitatis humanae e quello di Nostra aetate.

Il documento denuncia le situazioni di persecuzione violenta della religione, che sono purtroppo frequenti e gravi anche ai giorni nostri, in particolare per quanto riguarda la fede cristiana. Allo stesso tempo, si denuncia ogni violenza esercitata in nome di Dio, sia contro una cultura particolare, sia contro qualsiasi religione. Il martirio cristiano si presenta come caso supremo di testimonianza della fede e, nello stesso tempo, come testimonianza non-violenta della libertà religiosa per il bene di tutti.

Si approfondisce la consapevolezza che l’orizzonte adeguato della libertà religiosa è il servizio al bene comune della società, la crescita di una convivenza nella giustizia per tutti, che serva l’umanità in un mondo globale e interdipendente, e non qualsiasi eventuale privilegio dei gruppi religiosi. È questa una dimensione fondamentale della missione della Chiesa oggi.

Il documento valorizza il legame fra la libertà religiosa, come condizione inerente alla dignità di ogni persona, e la libertà dell’atto di fede cristiana come risposta alla rivelazione divina. Dio non vuole forzare nessuno ma aspetta e desidera la libera risposta di tutti. Ben l’aveva compreso Charles Péguy, che faceva dire a Dio: «Quando si è provato ad essere amati liberamente, le sottomissioni non hanno più nessun gusto. Quando si è provato ad essere amati da uomini liberi, il prosternarsi degli schiavi non vi dice più nulla. (...) Essere amati liberamente, null’altro ha lo stesso peso, lo stesso valore. È certo la mia più grande invenzione» (Il mistero dei santi innocenti, Milano 1979, p.45).

di Javier María Prades López
Universidad San Dámaso (Madrid)

L'Osservatore Romano: Icona della Chiesa nascente

Nel segno di Maria

Maria di Nazaret è la donna (Giovanni 2, 4; 19, 26; Galati 4, 4; Apocalisse 12, e così via). La qualificazione più alta che di questa donna si può dare è che è piaciuta a Dio (Luca 1, 30).

La «Donna» dell’Inizio, icona dell’umanità e di ecclesialità

Anche il discorso di Maria come donna si inscrive, perciò, su uno sfondo ampio, anzi su un fondale dagli archi smisurati che si riferiscono alla creazione e al piano salvifico trinitario e, perciò, all’umanità nella sua interezza. «Maria (…) è lei la rappresentante dell’uomo salvato e libero, ma proprio in quanto donna, cioè nella determinazione corporea che è inscindibile dall’essere umano: Maschio e femmina li creò (Genesi 1, 27). Il “biologico” e l’umano sono inseparabili, così come lo sono l’umano e il “teologico”» (Josef Ratzinger, Maria Chiesa nascente, Edizioni Paoline, 1981).



Pertanto, Maria come donna è l’icona di tutta la famiglia umana nel suo destino conviviale, ossia di comunità, composta di uomini e donne, che cerca di realizzare al suo interno, a tutti i livelli, esperienze di comunione. La donna dell’Inizio (o genesiaca) senza oltrepassare il realismo dell’atto creatore, che è il primo contesto storico dell’uomo, contiene già in sé la personalizzazione e il simbolo dell’umanità quale partner di Dio. Tutto questo avviene non solo al livello della creazione, ma dell’intera alleanza fra Dio e l’umanità (Genesi 3, 15; Isaia 54). Ugualmente, la donna della Fine (Apocalisse 12) è anch’essa il simbolo (non l’unico) dell’umanità-partner di Dio. Insomma, il «segno della donna» percorre l’intero arco della storia salvifica, dalla Genesi all’Apocalisse.

La «Donna» del Frattempo, icona della Chiesa pellegrina

Maria, «Donna» che ha accompagnato (e ancora accompagna) Gesù nella sua opera redentiva, è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa» (Lumen gentium, n. 53). «Microstoria della salvezza» e, in un senso molto realistico, micro-chiesa, per essere stata Chiesa nascente, ne è la più perfetta icona, e non in modo generico, ma in forma altamente puntuale. Donna eucaristica, Maria simboleggia il popolo di Dio in cammino verso il banchetto celeste, da non pensare senza effettivi rapporti con la “commensalità”, alla quale sono idealmente invitati tutti i discendenti di Adamo.

In tal modo, vengono connessi tre momenti: la regalità primordiale dell’uomo chiamato a cibarsi dei frutti della terra con animo grato; l’offerta che Gesù fa di sé stesso per riconciliare i fratelli col Padre; la convivialità eucaristica quale profezia del banchetto futuro, soglia ultima del cammino di esodo compiuto dal popolo di Dio (vedi Ernesto Balducci, La Chiesa. Comunità profetica nel mondo e nella storia, Milano, Edizioni Terra Santa, 2019, pagine 224, euro 11).

Questo popolo, radunato dal pasto dei pellegrini (l’Eucaristia), di cui si nutre come permanente viatico, orienta la sua gioia conviviale proprio al banchetto festivo del Cielo. A questo pellegrinaggio prende parte anche Maria, che non abbandona mai la Chiesa pellegrina, mentre è sempre misteriosamente presente nella sua vita e nella sua missione. In particolare, irraggia continuamente il gaudio di madre messianica sul suo popolo di figli incamminato con lei verso il volto del Padre. Donna icona dell’umanità intera, offre la sua vicinanza e la luce della sua bellezza anche sull’immensa carovana degli uomini perché sa che cercano mete di piena pace e, come madre del nuovo Adamo, sa che la sua missione è di essere madre misericordiosa del genere umano.

La «Donna» della Fine icona dell’umanità e della Chiesa glorificate

Nella singolarissima predilezione di Maria da parte del Dio trinitario si compie la singolare predilezione d’Israele. Così Dio ha voluto predisporre l’unica e irripetibile predilezione del Figlio perché entrasse nella terra e nella storia degli uomini nascendo da donna (Galati 4, 4). Perciò, «l’elezione di grazia di Maria diventa profezia esemplare di quella “donna anziana con una veste molto splendida” incontrata da Erma nelle sue visioni. Essa è la Chiesa, ed è così anziana perché fra tutte le cose è stata creata per prima, e il mondo è stato creato per lei» (Francesco Rossi de Gasperis, Maria di Nazaret icona di Israele e della Chiesa, Qiqajon, 1997).

La Chiesa storica non è l’ultima Chiesa e Maria, pertanto, non è icona solo di essa, ma è anche immagine profetica della Chiesa della Fine, illuminata dall’intramontabile luce del Risorto-Asceso e dalla luce di tutti i compimenti messianici.

Lì — in Cielo e alla Fine — la donna è vestita di sole. Essa non è più vestita di foglie come il peccato (Genesi 3, 7); né è vestita di pelli come nella cacciata dal paradiso protologico o “terrestre” (Genesi 3, 21-24); neppure è miseramente nuda, come nello stato di vergogna dopo il peccato (ibidem 3, 7.16); né è semplicemente nuda, come nell’ingenuità originale o come nella casta fraternità della giustizia della prima creazione.

La donna della Fine è profeticamente già vestita nel modo che piace a Dio, ossia con la luce di una nuova innocenza, per usare il titolo di un libro di Raimon Panikkar: è rivestita di sole con la luna sotto i piedi. È la perfetta icona dell’umanità integra, incoronata e salvata, restituita perciò alla sua gloria che Dio da sempre vuole per lei.

Maria «Donna» insegna a “stare al mondo” come Sorella

Icona del mondo umano, la Vergine di Nazaret insegna a stare in esso con sapienza. Almeno nella cultura di popolo l’espressione «stare al mondo» significa l’intera esperienza vitale dell’uomo soprattutto dal punto di vista delle diverse responsabilità dell’uomo. «Imparare a stare al mondo» è anche espressione usata con severità per richiamare a essere seri, corretti e compresi dei propri impegni. Maria — quale Donna dal quale «è nato al mondo un uomo» (Giovanni 16, 21) — sa bene esercitare questo magistero sapienziale. In concreto, da due dimensioni maggiori dell’esistenza mariana (sorella e credente) provengono speciali modi esemplari di essere presenti nella storia, ossia di «stare al mondo».

Vera figlia di Adamo, «Maria è nostra sorella per il fatto che tutti abbiamo avuto origine da Adamo» (Ireneo di Lione, Adversus haereses i, i-ii, 77). Maria ci è sorella soprattutto nel secondo Adamo, che è Cristo, perché è «il primogenito tra molti fratelli» (Romani 8, 29) e perché, come noi, anche lei è stata redenta da lui, benché in «modo sublime» (Lumen gentium, n. 53). Perciò Maria si presenta quale sorella, mostrando come si trasforma l’intera esistenza in servizio, come si crede e si obbedisce al primato di una vicinanza solidale, espandendo l’apertura agli altri e fortificando sempre di più la volontà d’aiuto nei loro confronti.

L’iniziativa caritativo-solidale di Maria di rendere visita a Elisabetta fa vibrare all’esterno di sé quello che vive nel cuore, insegnando così che un amore vero nasce da un cuore credente e orante. Lontana dalle forme di un amore intimistico o solo esteriorizzato, Maria vive la sua sororità in pienezza: si presenta come sorella in Adamo e come sorella in Cristo, la forma equilibrata che mostra come di fatto si possa e si debba far sintesi tra amore umano e amore divino nell’incontro con l’altro.

Maria «Donna» insegna a «stare nella Chiesa» come Discepola

Maria s’intende di vita ecclesiale per più motivi: c’è stato un momento (all’Annunciazione) in cui la Chiesa era solo lei; nella grotta della Natività diventa la madre della Chiesa; sotto la Croce prende in consegna la Chiesa ed è a lei affidata; nella sala alta del Cenacolo, a Pentecoste, offre alla Chiesa per il mantello missionario il colore femminile, materno, carismatico, caritativo; dal Cielo, come la Glorificata, scende in tanti modi a far missione con lei. Per queste sue competenze ecclesiali Maria è bene in grado di insegnare a stare nella Chiesa. Lo fa in tanti modi, ma qui ne seleziono uno soltanto: lo fa come Discepola.

L’essere discepolo è essenziale per vivere e imparare a vivere e a morire: nessuno è genitore di sé, nessuno è maestro di sé, nessuno è modello di sé, nessuno è giudice di sé. La buona passività ci fonda, ci fa essere: costituisce la nostra sicurezza; è il nostro equilibrio e anche la nostra grandezza. Perciò, l’identità mite di Maria Discepola non significa, in alcun modo, un’identità debole: lei non è mai una Donna allo sbando, anche se conosce il dubbio e la fatica del credere; né è mai una creatura in balia della logica del desiderio e dei contraccolpi deludenti quand’esso non si realizza.

L’identità mite di Maria Discepola — sub contraria specie — è perfino una raffinata contestazione di alcune forme molli di esistenza che l’uomo contemporaneo desidera e pratica, qual è la new age, una sorta di mistica dell’io minimo, che porta a pensare di poter evadere o sfuggire alle maglie ritenute troppo strette della ragione, mentre espone al rischio di una pericolosa infantilizzazione a tutti i livelli.

di Michele Giulio Masciarelli

mercoledì 24 aprile 2019

FMGB: I discepoli di Emmaus: icona di un itinerario vocazionale



Quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio” (At 8,4), annota Luca all’inizio del cap. 8 degli Atti, mostrando come la persecuzione che si abbatte sulla comunità nascente porta i credenti a uscire da Gerusalemme e a farsi annunciatori del Vangelo di Gesù nel mondo. Si dà così attuazione al comando dello stesso Risorto che, nel suo dialogo con gli apostoli, aveva proclamato: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Si compiva così la linea profetica anticotestamentaria che aveva annunciato l’apertura della salvezza a tutti i popoli e che lo stesso Risorto aveva sintetizzato in queste parole: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,46-48).
I “dispersi” che, sotto l’infuriare della prima persecuzione, se ne escono da Gerusalemme e prendono le strade che se ne dipartono sanno che quel loro cammino fuori dalle mura della città santa non è evadere, ma dare corpo al disegno di salvezza di Dio. La loro non è una fuga impaurita e delusa: il loro è il passo gioioso dell’evangelizzatore. Aveva esclamato Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza… Prorompete insieme in canti di gioia” (Is 52,9). Ora però, diversamente dalla profezia isaiana, non si gioisce più per il ritorno della gloria del Signore in Sion, ma perché quella stessa gloria, e cioè la manifestazione di Dio, si va diffondendo da Gerusalemme in tutte le città e i villaggi. Così Luca potrà commentare la prima evangelizzazione di Filippo in una città della Samaria: “E vi fu grande gioia in quella città” (At 8,8).
Di questa dimensione dinamica e itinerante della esperienza cristiana hanno piena consapevolezza i primi discepoli. Si formano comunità cristiane, ma esse non vivono per se stesse, bensì si preoccupano di promuovere e sostenere, direttamente o indirettamente, una missione che non può mai fermarsi, “fino agli estremi confini della terra”. Tale era stata la comunità di vita dei primi discepoli con il Maestro, percorrendo le strade della Palestina alla continua ricerca di un contatto con folle sempre più numerose, mentre “se ne andava per le città e i villaggi” (Lc 8,1), alla ricerca della pecora che si era perduta (cfr. Lc 15,3-7). La consapevolezza di essere in cammino, senza neanche la bisaccia ma solo con la parola di pace del Vangelo (cfr. Lc 10,4-5), si manifesta fin nella denominazione che i cristiani danno di sé: se infatti per i loro avversari essi sono una “setta” (At 24,14) e se chi li osserva dall’esterno ne nota il legame a Cristo per cui li chiama “cristiani” (At 11,26), i credenti si definiscono come la “via” (At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22). In questa definizione si esprime il carattere dinamico dell’esperienza cristiana, per cui essa non può ridursi a dottrina e neppure ad etica, ma si realizza come un evento. C’è anche però la consapevolezza che questo carattere dinamico non è qualcosa di puramente interiore, ma prende figura sulle strade del mondo. Il cristiano è l’uomo della via perché la sua vita si fa strada per ogni uomo che voglia incontrare Cristo. È la “via di Dio” (At 18,26), è la “via del Signore” (At 18,25), è la “via della salvezza” (At 16,17). Si è cristiani in quanto ci si costruisce come tali nella storia, con la storia dell’umanità e con la storia di ciascun fratello e ciascuna sorella.
Il cammino del cristiano non è però determinabile da lui stesso. Un cristiano che si mette in cammino non può avere come via che la strada stessa di Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me… mi segua” (Lc 9,23). Se dunque la Chiesa è un cammino e se non esiste altro cammino per un credente che non sia il cammino di Dio e se per un cristiano questo cammino è Gesù stesso, solo nel cammino di Gesù potremo cogliere le caratteristiche che deve assumere il cammino del credente. La parola di Gesù ai discepoli è chiara: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Lc 9,23). E la via di Gesù ha due caratteristiche fondamentali. È anzitutto un “discendere”: è la via dell’incarnazione che conduce il Figlio di Dio a farsi uomo a porre la sua dimora tra gli uomini, “assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,7) e poi a “umiliarsi” “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Ma la via di Gesù è poi anche un “ascendere”, é il risorgere da morte che lo porta a salire alla gloria del Padre, “innalzato alla destra di Dio” (At 2,33). La dinamica della Pasqua segna la via del cristiano. Ed è questa dinamica, questo cammino che i discepoli faticano a comprendere fin dall’inizio, fin dal muoversi di Gesù verso Gerusalemme (cfr. Mt 16,21-23) e poi nella notte del tradimento (cfr. Mt 26,31.56) e sotto la croce (cfr. Lc 23,49). Ciò che è qui in questione è il senso di un itinerario cristiano, dell’itinerario di un cristiano e quindi di un cammino che risponde alla chiamata di Dio.
Possiamo finalmente accostarci ai due viandanti verso Emmaus, per verificare il loro cammino e capire in che senso esso può essere un utile paradigma per noi e per la ricerca vocazionale dei credenti. Anche i due uomini che nella sera della domenica di Pasqua si muovono sulla strada tra Gerusalemme e Emmaus si stanno allontanando dalla città santa; ma non lo fanno perché pressati da una persecuzione, né perché pensano di dover attuare una missione. Al contrario, la loro ha tutto il sapore di una resa, dell’abbandono, della ritirata dopo una disfatta. Il loro sguardo è “triste” (Lc 24,17), e rivela il vuoto e il peso che portano nel loro cuore. A chi si avvicina loro con amore, il volto dei due uomini non può nascondere le angosce e gli interrogativi che essi portano con sé.
Come per molti credenti e non credenti la domenica dei due discepoli sulla strada di Emmaus non inizia avendo scelto di incontrare il Signore e i fratelli in un’assemblea, in cui esprimere rendimento di grazie e lode al Padre di tutti. Occorre pur prendere atto che proprio qui, su queste strade non sacre, su questi sentieri interrotti, su questi cammini non qualificati si colloca la maggior parte dei nostri interlocutori. Restringere il nostro interesse ai soli che si trovano già a Gerusalemme, che esprimono nella festa del gesto sacramentale la loro figliolanza divina e la loro fraternità, significherebbe limitare in modo indebito il nostro rivolgerci a tutti. Così non faceva Gesù. C’è un primo dovere della missione che possiamo definire come presidiare tutti i crocicchi delle strade degli uomini. Non è facile, perché lontano da Gerusalemme si incrociano tante strade e non tutte immediatamente riconoscibili. C’è il pericolo che molta parte dell’umanità se ne vada senza che noi la incontriamo mai; che nel suo girovagare alla ricerca di mete accettabili si allontani dai nostri luoghi, linguaggi, esperienze. Entra qui in gioco quella dimensione del progetto culturale che ci invita ad entrare con coraggio nel confronto con le mentalità e gli stili di vita correnti, con gli orientamenti filosofici e le espressioni artistiche prevalenti, con i “nuovi areopaghi” della comunicazione e delle diverse forme di socializzazione. L’atteggiamento è quello che ci ha insegnato Gesù: l’apertura al dialogo e l’accoglienza di tutte le domande, nella chiarezza della verità, di cui siamo sempre e solo servitori.
Molte volte queste domande non sono espresse. Anzi il problema dell’uomo contemporaneo è proprio quello di non saper tematizzare il proprio malessere e i propri problemi. Non così invece sulla strada di Emmaus. I dubbi e gli interrogativi lì si moltiplicano: quale senso dare alla vita, verso quale direzione orientarla dopo che l’esperienza di discepoli di Gesù sembra essersi conclusa sotto la croce da cui pendeva il Maestro? “Noi speravamo…” (Lc ,24,21): la speranza appartiene ormai al passato; ora c’è solo spazio per la disillusione. Il disinteresse non è totale, in quanto non mancano segni che invitano ad approfondire la ricerca: “Alcune donne, delle nostre, … non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli… Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro… ma lui non l’hanno visto” (Lc 24,22-24). L’ascolto delle molte voci non scalfisce la superficialità dell’approccio: alla fine su tutto regnano i fatti verificabili, diremmo oggi scientificamente verificabili, e su questo piano appare chiaro che non si può scambiare l’impensabile, l’assurdo con il dato che si impone nella sua oggettività: “Non l’hanno visto”.
Il lento narrare e ragionare dei due sulla strada di Emmaus ha qualcosa di estremamente attuale. L’identità, la vocazione di una persona, il cammino che essa può e deve compiere è racchiusa nella sua stessa storia e in quella di cui si è parte. Farsene consapevoli protagonisti è un passo necessario di una vicenda identitaria e vocazionale. Aiutare a farlo è un compito non secondario di una pastorale della maturità di fede e della vocazione. Non è affatto scontato. Al contrario: per lo più ciascuno vive la propria vicenda come un frammento, anzi un insieme di frammenti, e rischia di non saper mai dare una linea logica a quanto vive e al contesto in cui vive. Occorre aiutare a narrarsi e a narrare, a ritessere il tessuto delle storie umane in cui si è collocati, avendo la consapevolezza che la trama che tutto regge è la storia dell’amore di Dio verso tutti gli uomini.
Per fare questo occorre farsi compagni di viaggio, come Gesù. Fin quando lui non si fa loro vicino, tra i due viandanti verso Emmaus si intrecciano discorsi e discussioni, magari dispute. È la domanda di Gesù che permette di dare a una serie di interrogativi un percorso logico, in cui ciascuno ritrova il proprio posto: Gesù il Nazareno; la potenza profetica che si era manifestata nelle sue parole e opere; la consegna, la condanna e la crocifissione; la speranza di una liberazione; il tempo trascorso senza novità; le voci di donne e discepoli, un sepolcro vuoto, la sua assenza. Un compito essenziale di una pastorale vocazionale è questo farsi specchio per le donne e gli uomini in cerca del senso della propria vita, perché i tratti scomposti del volto di ciascuno siano reintegrati in una immagine coerente, che permetta di far emergere l’interrogativo di fondo, quello che impedisce di fare il passo della fede e della dedizione al Signore.
Questo passo nasce dall’incontro con lui, quello che permette di rovesciare l’affermazione desolante: “Non l’hanno visto”. Perché diventi consapevolezza occorre però prima un lungo tragitto. All’inizio Gesù che si accosta e cammina con i due discepoli non è riconosciuto come il Signore risorto: “I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” (Lc 24,16). Eppure non mancava loro la familiarità con lui. Con lui avevano vissuto a lungo, camminando con lui lungo le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea, fino a Gerusalemme. Non era certo la prima volta che lo ascoltavano: lo avevano fatto tante volte, sia quando parlava alle folle sia quando si intratteneva con i più vicini a lui. Avevano visto numerosi prodigi e segni da lui operati. Eppure lì, sulla strada di Emmaus, non lo riconoscono. Lo avevano visto e ascoltato, ma non lo avevano mai guardato con gli occhi della fede. Glielo rivela Gesù stesso: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere!”. Non solo allora, in quel momento; ma fino ad allora, per un lungo tempo, in una consuetudine che si era fermata alla soglia della fede senza mai oltrepassarla.
Per i discepoli sulla strada di Emmaus e per ogni discepolo del Signore il passaggio dalla consuetudine alla fede si fa attraverso la Parola. Gesù stesso rinnova l’annuncio della parola di Dio. Vale per loro come per noi. L’ermeneuta delle Scritture, e attraverso le Scritture della storia, è solo Cristo: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). Le parole del libro sacro vanno tutte riferite a Cristo e, lette così, diventano luce per la storia dell’uomo Gesù e di tutti gli uomini. Interpretando le Scritture, Gesù fa scoprire il significato del sepolcro vuoto e delle apparizioni degli angeli che lo annunciano vivo; svela il mistero della sua Pasqua di morte e risurrezione, fondamento di speranza e di vita per ogni uomo.
Non ogni discorso sulla Bibbia è luce per l’uomo: occorre che esso sia il discorso di Gesù. Troppe volte pensiamo che la semplice giustapposizione tra parola biblica e vicenda umana sia per sé risolutiva. Al contrario, essa può generare fondamentalismi o, al contrario, sensazioni di estraneità. È necessaria la mediazione della persona di Cristo. Un itinerario vocazionale è sempre un itinerario con Cristo, alla scoperta della sua persona, perché solo con lui Parola e storia si illuminano a vicenda e svelano il loro significato per me. Il cammino dell’annuncio, che è parte essenziale di ogni percorso di fede è anzitutto un cammino di incontro personale con Gesù e esperienza viva di lui.
“Resta con noi” (Lc 24,29): è l’invito dei due discepoli allo sconosciuto viandante che si è affiancato a loro e che ha gettato con la sua parola una nuova luce sulla vicenda umana di cui sono stati protagonisti, riferendo a Gesù le parole della Scrittura. Una precisazione si impone. L’espressione è: “Resta con noi”; non: “Resta con noi, Signore”, come siamo soliti dire, andando oltre il dettato del testo biblico. Qui, però, la fedeltà al dettato è essenziale, per non travisare intenzioni e significati. L’espressione dei due discepoli non è l’invocazione a Cristo Signore, perché egli continui ad essere loro vicino. È piuttosto un invito allo sconosciuto viandante, la cui identità rimane ancora misteriosa, perché non resti solo lungo il cammino, quando ormai si fa sera, ma si fermi con loro.
L’invito è espressione di sollecitudine verso una persona incontrata mentre, solitaria, si avventurava per le strade insicure e pericolose del paese. Non è una richiesta di aiuto, ma un gesto di spontanea accoglienza, l’offerta di condividere un luogo in cui rifugiarsi per la notte, una mensa a cui rifocillarsi e, anzitutto, una fraternità che aiuti a superare solitudine ed estraneità. In una parola, è un gesto di solidarietà. Lo sconosciuto, per il momento, è soltanto un povero, a cui i due offrono un gesto d’amore.
È il primo frutto del cammino compiuto nell’ascolto della Parola. I discepoli stessi lo riconosceranno, dicendo: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). L’ascolto della Parola ha generato uno slancio di generosità. Quella Parola li ha trasformati: la chiusura e la tristezza hanno ceduto il posto all’apertura del cuore e all’accoglienza. I loro cuori vengono trasformati da quell’ascolto e ardono di amore mentre accolgono la verità. L’accoglienza della verità si traduce nell’accoglienza dei fratelli. La parola di Dio dona la fede e la fede genera la carità.
Non si dà vero cammino nella fede che non generi frutti di carità e non si dà cammino nella fede che non si intrecci con i gesti dell’amore. Questo vale anzitutto per la comunità cristiana nella sua globalità. Sappiamo bene il pericolo che essa venga percepita come una semplice agenzia sociale, capace di una presenza di umanizzazione nelle situazioni più difficili. Questo deve farci attenti alle motivazioni che ci guidano nell’esercizio della solidarietà e della carità; deve renderci particolarmente impegnati a rendere ragione della speranza – quella escatologica e che solo la fede giustifica – che anima i gesti della carità; ma non deve fare venir meno il nostro impegno storico nel renderci vicini a ogni povertà, sapendo che sarà la carità la misura della nostra fedeltà al Vangelo. In questo Gesù non ha mancato mai di fare chiarezza, evidenziando proprio nella concretezza dell’amore l’autenticità della fede (cfr. Mt 25,31-46).
Questo vale anche per i percorsi individuali, nel cammino di fede e in quello specificamente vocazionale. Non pochi potrebbero testimoniare come sia stato all’interno di un servizio di carità che è brillato per la prima volta un interrogativo sulle ragioni ultime del gesto e su come renderlo stabile nel tempo e radicato in un progetto che ne svelasse l’identità. Di fatto molte volte il cammino vocazionale assume oggi la forma di aiutare a fare un passaggio dal dare qualcosa di sé, nel tempo e nelle cose, verso un lasciarsi coinvolgere come persona dagli altri, sentendoli parte di quella “moltitudine” per la quale il Signore dona il suo corpo e versa il suo sangue (Mt 26,28). Anche in questo ambito c’è da combattere quella cultura della frammentarietà che mina alla radice ogni persona, rendendola capace magari di altissimi gesti, ma impedendole di fare della propria vita intera un gesto di amore per il Signore e per gli altri.
Come nel cammino verso Emmaus, riconoscimento della fede e slancio di carità non sono mai divisi. Ne va della natura stessa della rivelazione cristiana. “Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Gv 4,16): al centro della vita cristiana sta il mistero stesso di Dio che è amore. Riconoscere questo mistero, con l’adesione della mente e con la consegna della vita, è il compito che attende ciascuno. La rivelazione di Dio amore ci è infatti donata perché anche noi diventiamo capaci di amare come Dio ama, con lo stesso amore con cui egli ci ha amati nel suo Figlio.
“Come io vi ho amato, così amatevi voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). In quel “come” sta tutta l’identità cristiana e quindi anche il centro di ogni progetto vocazionale. Quel “come” ci aiuta a sfuggire alle riduzioni solidaristiche del cristianesimo, che ne fanno un’ideologia tra le altre, e a rispettarne la essenziale dimensione rivelativa e di dono. Il “come”, infatti, è legato intimamente alla croce, alla sua totale gratuità, che supera ogni umana progettualità e si esprime come puro dono. Il cammino vocazionale incrocia qui gli ostacoli che vengono da una cultura diffusa di stampo strumentale e utilitarista. L’ultimo feticcio da abbattere, in questa prospettiva, è il mito della realizzazione di sé, ma anche della realizzazione della comunità, persino della realizzazione del mondo. Un cammino vocazionale autentico deve prendere sul serio, in tutte le sue sfaccettature, l’affermazione decisiva che: “Tutto è grazia”. E, in fedeltà a ciò, si è cristiani facendosi strumento di grazia per gli altri.
Fede e carità hanno preparato il contesto per l’incontro decisivo. L’invito dei due discepoli è accolto dallo sconosciuto viandante. Ma ora, seduti alla mensa della fraternità, il volto del povero si trasfigura e la parola del sapiente compagno di viaggio prende tonalità nuove: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30). Il pane dell’ospitalità, offerto allo sconosciuto, viene preso da costui nelle mani per farne oggetto di benedizione, prima di essere restituito diviso ai due discepoli. Il gesto è ben conosciuto, tante volte ripetuto sulle tavole del popolo ebraico; è il gesto del capofamiglia, che con la preghiera del ringraziamento apre il pasto ed esprime nel segno la condivisione. Non è più uno sconosciuto viandante, ricco di biblica saggezza e al tempo stesso bisognoso e povero, quello che sta ora di fronte ai due discepoli: lui che è l’ospite è diventato il capo della casa. Una rivelazione sta accadendo: l’identità dello sconosciuto sta per essere proclamata.
Convocati dalla Parola e trasformati dalla carità, i fratelli si ritrovano insieme, e Gesù è in mezzo a loro come il Signore della comunità. Che cosa altro è una celebrazione eucaristica, quella che si svolge ad Emmaus nella sera della domenica di Pasqua, come pure quella che si celebra ogni domenica in tanti angoli del mondo, se non il luogo e il modo con cui i cristiani riconoscono e proclamano Gesù come il loro Signore? Tutto qui, nulla di più; ma nulla di più grande ed essenziale per la vita di un uomo. L’essenziale è riconoscere il proprio Signore: “Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,31).
Il gesto che lo sconosciuto compie, e che lo rivela, richiama alla mente i gesti simili che Gesù aveva compiuto moltiplicando i pani per le folle, soprattutto il gesto, e le parole che lo accompagnarono, che egli aveva compiuto nell’ultima sua cena con i discepoli prima della passione: l’istituzione dell’eucaristia. Nel chiedere ai discepoli di ripetere quel gesto, Gesù aveva invitato a fare memoria di lui, in particolare del sua Pasqua, del dono della sua vita per la salvezza degli uomini. Nell’eucaristia si dà la comunità cristiana. È quanto accade anche alla locanda sulla strada di Emmaus. Quando infatti lo sconosciuto viandante spezza il pane e lo dà ai discepoli, i loro occhi si aprono ed essi finalmente riconoscono in lui Gesù, il Signore risorto. Solo ora il cammino della fede è compiuto: non è stato sufficiente accogliere la Parola e neppure aprirsi al gesto della carità; la meta del cammino della fede è nel segno dell’eucaristia, nella celebrazione del memoriale della Pasqua.
Un cammino vocazionale non è un riconoscimento di sé, ma il riconoscimento del Signore e lo scoprirsi discepoli davanti a lui. I due discepoli sulla strada di Emmaus si ritrovano tali davanti al volto di Cristo che l’eucaristia rivela. L’eucaristia, come segno supremo dell’identità di Cristo, dono del Padre e dono di sé agli uomini nel profondo della condizione umana, è il luogo in cui ogni vocazione può e deve essere autenticata. Solo lì la ricerca di sé si sublima e diventa, nel riconoscimento di Cristo, la scoperta del modo con cui ciascuno di noi, assimilati a lui, può farsi dono agli altri. Questo vale in modo del tutto particolare per il sacerdozio ministeriale, ma vale anche in analogia per ogni altra vocazione cristiana, quelle di speciale consacrazione e tutte le altre con cui ci si fa servitori del Regno e dell’umanità.
La centralità dell’eucaristia non è una pura centralità celebrativa. La celebrazione però ne fa emergere la struttura del tutto gratuita: gratuitamente a noi data e, pur nella nostra imperfezione, gratuitamente offerta al Padre e ai fratelli. Come ogni celebrazione questa dimensione del “non dovuto” avvolge l’eucaristia e ne esprime la sua indipendenza dai cicli vitali, dalla catena dei bisogni primari, dalla rete dei doveri sociali. Essa è segno del dono, è un segno lasciato come dono, è un gesto donato e mai perduto. Ma quello che la celebrazione significa nella gratuità è soprattutto il senso stesso dell’eucaristia e il perché del suo essere al centro della vita cristiana e del percorso vocazionale. Solo lì attingiamo infatti il centro del mistero d’amore che è Dio, così come si è svelato sulla croce eretta sul Golgota: l’innocente ha preso su di sé i nostri peccati, per sollevarli con sé e portarli attraverso la coltre della morte e annullarli nella luce della risurrezione.
Il mistero cristiano, che ogni vocazione è chiamata a riproporre, non è altro che il mistero della Pasqua e per il cristiano non è dato altro accesso pieno al mistero della Pasqua se non nell’eucaristia. Non è forse la crisi della domenica e della celebrazione eucaristica l’indizio più forte di come la fede si sta distaccando dalla vita della gente? È proprio perché la Pasqua non è più percepita come la chiave di lettura e di soluzione della vita che la gente non sente più l’eucaristia, o la esteriorizza e ne percepisce solo le valenze estetiche e sentimentali, ovvero quelle aggregative e sociali. Si fa fatica a credere che solo attraverso l’umiliazione e l’abbassamento, fino al rinnegamento di sé, si raggiunga il vertice della vita, l’esaltazione piena di essa. La logica pasquale è rifiutata dalla cultura corrente, e anche da non poche correnti spirituali, adagiate su un cristianesimo amputato di una parte del suo dinamismo. La riconquista della fede pasquale – fede nella morte reale del figlio di Dio fatto uomo e fede nella reale risurrezione di lui a vita nuova – è il passaggio centrale di un cammino vocazionale che voglia dirsi autenticamente cristiano. Questo passaggio si fa nel corpo per noi donato e nel sangue per noi versato.
La vicenda di Emmaus mostra bene come l’eucaristia si collochi al vertice della vita cristiana e dia compimento ad ascolto della Parola e a esercizio della carità. Ma proprio quella stessa vicenda ci dice che l’eucaristia non si consuma in se stessa, nel piccolo o grande gruppo che la celebra, come pure in se stessi non si consumano l’ascolto della Parola e l’accoglienza del fratello nella carità. L’esperienza comunitaria così edificata, l’esistenza cristiana così restituita rimandano ad altro. Il Signore, infatti, appena intravisto, sparisce allo sguardo dei due discepoli. Il mistero contemplato non è il termine del viaggio. Si potrebbe dire che il Signore non sta ad Emmaus. Infatti, il Cristo “totale”, il capo e le sue membra stanno altrove: a Gerusalemme, dove la comunità di tutti i credenti in lui sta riunita e dove, quindi, i passi dei due discepoli subito si dirigono.
Nessuno appartiene alla piccola locanda sulla strada di Emmaus. Tutti invece siamo legati a quel gruppo di credenti che fa unità attorno agli Undici. I due discepoli che ritornano in fretta non trovano più deserta la sala al piano superiore. Sono scomparsi lo sgomento e lo scompiglio. I dispersi sono tornati e sono riuniti insieme. Al centro si trovano gli Undici: essi ne sono il fondamento, le guide, i pastori lasciati dal Maestro a vegliare sul piccolo gregge. Ai due discepoli appare subito che quella che ora incontrano è una comunità con un connotato ben preciso: è una comunità apostolica.
Tornando dalla strada di Emmaus, da una esperienza così singolare, i due discepoli si saranno probabilmente aspettati un’accoglienza piena di curiosità, mille domande sul perché del ritorno, su che cosa era accaduto, ecc. Essi potevano pensare di trovare una comunità in attesa di novità e di poter contribuire in modo essenziale alla fede dei loro amici con il riferire la loro straordinaria vicenda. E invece trovano una comunità che non chiede, ma offre; che non domanda, ma che con sicurezza fa la propria professione di fede: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34). La professione di fede della comunità cristiana è fondata sull’autorità della testimonianza degli apostoli, del primo degli apostoli, Simon Pietro.
Non c’è accenno ad altre apparizioni. I due discepoli potranno dire quanto è accaduto sulla via, ma la loro resterà una testimonianza personale, che non aggiungerà nulla, non sarà decisiva per la fede della comunità. Al fondamento di questa sta l’apostolo. Attorno all’apostolo potranno fiorire poi la molteplicità dei carismi, dei ministeri, delle vocazioni; attorno alla saldezza della fede da lui assicurata potrà dispiegarsi la varietà delle parole e dei gesti che la spiegano, la mostrano e la testimoniano. Da lui partirà anche la missione per cui quella stessa Chiesa, allora ancora racchiusa nella piccola sala, si sentirà dire di lì a poco dal Risorto: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,46-48). Si chiude così il cerchio del cammino da cui avevamo iniziato: i discepoli, dal cammino sbagliato verso Emmaus, possono e debbono di nuovo ripartire verso tutte le genti. Ma ora questo è possibile perché la loro identità missionaria si è costruita attraverso il passaggio della Parola, della carità, dell’eucaristia e dell’apostolicità.
Quest’ultima nota merita ancora un approfondimento. Non si può negare che ci fa fatica riconoscerla. L’autenticità viene troppo spesso scambiata con lo spontaneismo. La vitalità viene troppo spesso ricercata nella separatezza offerta da una forte identità. L’apostolo sembra qualcosa di lontano, di inafferrabile, quando non viene confuso con una dottrina arida e con una disciplina rigida. In realtà, dietro l’immagine dell’apostolo e la realtà dell’apostolicità della Chiesa sta la garanzia delle radici. Esse sono però radici vive, per cui l’unica dottrina degli apostoli viene ancora oggi proclamata nella sua intangibile verità nelle forme più adatte all’uomo del nostro tempo. Così pure il legame sacramentale che viene tramandato è un segno che assicura perenne vitalità a chi ne è destinatario ma fiorisce in forme nuove e rispondenti ai bisogni dei tempi, come la storia della santità ci insegna. E, infine, la comunione che il successore degli apostoli deve assicurare nella comunità che gli è affidata non si traduce in imposizione dall’alto ma in animazione della ricchezza dei diversi servizi e ministeri per una piena evangelizzazione.
A questa immagine apostolica di Chiesa deve ancorarsi anche un autentico itinerario vocazionale. Non si tratta di aprirsi ciascuno un proprio cammino, ma ciascuno di rispondere per la sua parte al dovere di farsi strumento della vita della Chiesa sotto la guida dei pastori. La partecipazione viva alla vita della Chiesa non è un di più che si aggiunge all’essere cristiani, ma ne è la condizione. Per questo non si dà vocazione se non nella verifica del pastore e nell’ascolto obbediente delle attese che egli esprime per il gregge. Il riferimento ecclesiale non sta al termine di un itinerario vocazionale, ma ne è una condizione imprescindibile.
Il riferimento ecclesiale è anche il fondamento della missionarietà di ogni vocazione cristiana. La pericope che segue all’episodio dei due discepoli sulla strada di Emmaus è quella che fa da ponte tra il vangelo lucano e gli Atti degli apostoli e che, come abbiamo visto, apre lo scenario della missione. Ebbene, questa pericope inizia con queste parole: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro” (Lc 24,36). Le cose di cui stanno parlando sono gli eventi accaduti sulla via di Emmaus e chi ne parla sono i due protagonisti con i restanti membri della comunità. Gli uni e gli altri sono ora coinvolti dalla manifestazione di Gesù che, nel rivelare il senso degli eventi pasquali, li proietta verso la salvezza di tutte le genti. Non esiste percorso di vita cristiana senza missionarietà. Se la missione può e deve caratterizzare in modo specifico alcune vocazioni, la missionarietà è una nota di tutte le vocazioni. Se oggi essa ci viene richiamata come un’urgenza tipica di un’epoca di minacciata cristianizzazione, essa però appartiene alla nostra stessa natura di cristiani. Non più una persecuzione violenta ma oggettive difficoltà di accoglienza della testimonianza cristiana nella nostra società ci dicono che, per chi è stato sulla strada di Emmaus, è ora di prendere la strada verso la Samaria. Lì, in una vita cristiana riscoperta nella sua destinazione al Vangelo, potremo nuovamente fare esperienza della gioia che esso genera ogni volta che viene seminato e trova cuori pronti ad accoglierlo.
Il cammino verso Emmaus risuona di molte voci e le immagini che esso proietta presentano molteplici volti. Ho cercato di coglierne alcuni, che potessero aiutarci a meglio definire i caratteri di un itinerario vocazionale e quindi la pastorale che deve sostenerlo. Essi disegnano un preciso dinamismo, che ha un primo passo nell’incontro con la Parola che illumina la storia delle persone e quella dei popoli collocandole nella luce di Cristo, un secondo passo nell’esercizio della carità come luogo di rivelazione del volto di Dio che è dono di amore, un terzo culminante passo nel segno eucaristico che ci fa passare dalla ricerca di sé al riconoscimento del Signore della nostra vita trasformata a immagine della sua Pasqua, così che da questi tre passi si possa giungere a riconoscere un disegno di Dio su ciascuno radicato nella comunione ecclesiale e proiettato nella missione evangelica. Per chi è capace di questo cammino la tristezza si trasforma in gioia, la preoccupazione di sé lascia posto al dono, il Signore non è più perduto per sempre, la Chiesa è la salda radice di una vite che allarga i suoi tralci sul mondo. Alla sera succede la luce del mattino della risurrezione.
di Giuseppe Betori

martedì 23 aprile 2019

Enzo Bianchi – Gesù risorto per amore

Scriveva Massimo il Confessore, grande teologo bizantino del VII secolo: “Colui che conosce il mistero della resurrezione conosce il senso delle cose, conosce il fine per il quale Dio fin dall’in-principio creò tutto”. Sulla scorta di questa penetrante osservazione che riguarda l’evento centrale del cristianesimo, il vero e proprio specifico della fede cristiana, è utile porsi una semplice domanda: perché Gesù è risorto da morte?

Sarebbe troppo sbrigativo rispondere che egli è risorto perché era Figlio di Dio, dunque ciò stava nell’ordine normale delle cose. Risposta vera ma parziale. D’altra parte, non è neppure sufficiente leggere la resurrezione come il miracolo dei miracoli: tale interpretazione contiene certamente una verità, perché la resurrezione è l’inaudito su questa terra, è ciò che contraddice la certezza universale secondo cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana. Ma a mio avviso è ancora una spiegazione insufficiente…

Cerchiamo dunque di fare un percorso più approfondito. Nell’Antico Testamento la morte è il segno per eccellenza della fragilità umana. Ciascuno porta dentro di sé “il senso dell’eterno” (‘olam: Qo 3,11), l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! Ogni essere umano, “sotto il sole” (direbbe Qohelet), trova senso nella misura in cui sa vivere dei gesti che restano nel tempo: ma se tutto passa, se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra esistenza?

Qui entra in gioco la riflessione umanissima che ogni uomo e ogni donna fanno da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore. Quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: “Ti amo”, ciò equivale ad affermare: “Io voglio che tu viva per sempre”. Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ebbene, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore delle sante Scritture consiste proprio nel fatto che in esso si parla dall’inizio alla fine di amore, di amore umano. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato:

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come l’inferno è lo slancio amoroso.

Le sue vampe sono fiamme di fuoco,

una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).

Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio greco éros–thánatos). La Bibbia, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza; non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! La morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. In altre parole, se è vero che l’Antico Testamento non ha pagine chiare e nette sulla resurrezione dai morti, al suo cuore sta però la consapevolezza che l’amore può combattere la morte. E questo non è poco!

Tenendo presente tale orizzonte, possiamo ritornare alla nostra domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agápe, è stata amore vissuto per gli altri e per Dio fino all’estremo: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (eis télos)” (Gv 13,1), per riprendere il versetto giovanneo che apre la narrazione dell’ultima cena, contrassegnata dal gesto della lavanda dei piedi. Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che ha vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte – quell’amore insegnato ai discepoli lungo tutto la sua vita (con tutta la sua vita!) e poi condensato nel mandatum novum: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12) – a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena.

Detto altrimenti, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? È questa la domanda che si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: “Dio ha risuscitato Gesù, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24)… Com’era possibile che l’amore restasse preda degli inferi? Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: risuscitandolo dai morti, Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto (exeghésato: Gv 1,18) e ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto l’essenziale per conoscere lui.

È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù Risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba pasquale, nell’alba di quel “primo giorno dopo il sabato” (Mc 16,2)? Alcune donne e poi alcuni uomini, discepole e discepoli di Gesù, si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità, hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade… Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore.

Di più, egli si è manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: “Rabbunì, mio maestro!” (Gv 20,16); i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane (cf. Lc 24,30-31.35), cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; il discepolo amato, che lo riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade, grida a Pietro: “È il Signore!” (Gv 21,7)… In sintesi, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno, e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che “Dio è amore” (agápe: 1Gv 4,8.16).

Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare e infine mettere per iscritto nei vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli emarginati, di perdonare la donna adultera (cf. Gv 8,1-11), di accettare il gesto d’amore della peccatrice (cf. Lc 7,36-50), di chiamare Giuda “amico” (Mt 26,50), proprio mentre per colpa sua veniva arrestato… E dopo aver raccontato tale amore per tutta la vita – fino a dire, sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34) – avrebbe potuto restare preda della morte? Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una ragione per cui morire e, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore per gli altri, vissuto quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, quell’amore che non può morire!

Sì, l’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in profondità è quello dell’amore. Siamo cioè chiamati a immergerci nell’amore di Dio, quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo, che ha speso giorno dopo giorno la vita per gli altri (cf. Gv 15,13): allora la nostra vita potrà avere un senso, una direzione, un sapore… Ecco perché, quando siamo incapaci di sperare nella resurrezione, è perché in verità non crediamo che l’amore possa avere l’ultima parola: credere e sperare la resurrezioneè una questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la resurrezione di Gesù.

Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con umiltà e discrezione, a tutti gli uomini e le donne. Affermare semplicemente che “Gesù è risorto” è una bella notizia, ma troppo breve per essere davvero Vangelo per tutti gli esseri umani: come potrebbe riguardarli? Forse invece anche i non credenti sono interessati a percorrere un cammino nel quale si parta dal presupposto che l’amore è in grado di combattere la morte, fino a vincerla.

Ecco il senso profondo della resurrezione di Gesù, ecco come questo evento può parlare a tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità.

Pubblicato su Avvenire, Luoghi dell’Infinito, Aprile 2019

lunedì 22 aprile 2019

Tv2000.it: SOUL - Padre Bernardo Maria Gianni ospite di Monica Mondo

#SOUL - Padre Bernardo Maria Gianni ospite di Monica Mondo
A Soul padre Bernardo Maria Gianni, monaco, benedettino, abate di San Miniato al Monte, sopra Firenze. La città simbolo dell’Umanesimo vista dal colle, perchè un tempo era l’abbazia, posta sul monte, il punto da cui osservare la città e a cui la città guardava. “Haec est porta caeli”, per chi l’ha scelta come vocazione e per chi cerca dai monaci ascolto, parole, la Parola. Così a san Miniato c’è un via vai continuo di cercatori d’anima, e di fede. E il pregiudizio dell’isolamento monacale si smonta nel conoscere la fertilità di tanti incontri, conferenze: quel che i benedettini  han sempre fatto in Europa, creare una nuova cultura tenendo viva l’antica. San Miniato resta un centro di dialogo tra la sapienza cristiana e le correnti culturali e artistiche della società.  Ma il primo e fondamentale compito di un monaco, che ricorda il compito principale per tutti gli uomini, è “quaerere Deum”, provocazione e memoria a un mondo che ne ha sopito le domande.  “Dietro le cose provvisorie cercare il definitivo”. E’ il definitivo è la vita eterna, che la Resurrezione di Cristo ha promesso. Per questo Pasqua è un evento per noi, è “l’evento” della nostra fede.


AlzogliocchiversoilCielo: La risurrezione, trionfo della fedeltà

La Pasqua è il segno del Padre che non abbandona il Figlio nella morte, e di Gesù che non abbandona i discepoli nella disperazione. La meditazione del biblista Bruno Maggioni nell’editoriale della Rivista del Clero italiano edita da Vita e Pensiero

Parlando della sua passione, Gesù ha sempre fatto riferimento anche alla risurrezione. Il legame che unisce la Croce con la risurrezione è inscindibile. Anche l'angelo che annuncia alle donne la risurrezione ricorda nel contempo la passione: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (Mc 16,6).

La risurrezione è un giudizio di Dio che capovolge le valutazioni degli uomini. Dio ha fatto risorgere proprio colui che gli uomini, a nome suo, hanno crocifisso. La risurrezione è la verità del Crocifisso.

Tutto il Nuovo Testamento afferma che la risurrezione di Gesù è un fatto reale, concreto, avvenuto e testimoniato, non un simbolo o una semplice speranza. Gesù è veramente risorto. La fede sta o cade con la resurrezione, come afferma anche Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto: «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede» (1 Cor 15,14).

La risurrezione di Gesù è reale, ma non è un semplice ritorno alla vita terrena. Gesù è andato avanti, non è tornato in dietro, è entrato in una dimensione nuova, è entrato nella gloria del Padre. Questo dato di rivelazione apre il credente a una grande e concreta speranza, che poggia sull'amore di Dio. Il Risorto mostra che Dio è fedele ed è il Vivente, e non abbandona alla morte ciò che ha creato.

Fondamento della speranza, la risurrezione di Cristo dice pertanto la verità più profonda dell'uomo: solo la nuova esistenza glorificata, infatti, permette di fare una diversa lettura di questa vita segnata dalla vanità e dal peccato. L'uomo ha sete del definitivo, desidera ciò che è sicuro, ma poi si scontra con ciò che è relativo e provvisorio. Lo sforzo che l'uomo compie per la propria liberazione dal peccato sembra irrimediabilmente condannato alla sconfitta. La parola di Dio, l'amore, i veri valori sono spesso perdenti, combattuti o lasciati nell'indifferenza; le parole degli uomini sembrano più efficaci della parola di Dio, gli idoli più affascinanti del vero Dio, e così il peccato sembra annullare ogni sforzo di liberazione.

Queste riflessioni ci portano ai piedi della croce, nel momento in cui l'amore sembra sconfitto dal peccato, la verità dalla menzogna, la vita dalla morte, la promessa di Dio dal suo apparente abbandono.

Ma dopo la croce c'è la risurrezione, nella quale è possibile un radicale cambio di prospettiva. La fatica di vivere non appare più come un affannarsi inconcludente. Il Vangelo rivela che chi ripercorre la via di amore, di dedizione e di obbedienza al Padre che Gesù ha aperto, sperimenta che la fedeltà di Dio verso l'uomo, la Sua promessa di vita, è più forte del peccato e della morte.

L'uomo che si apre alla fede nella resurrezione vive la gioia di un'esistenza che ha trovato finalmente il suo fondamento e la sua ragione. Un'esistenza che continua a essere faticosa, segnata dalla contraddizione, ma anche consapevole di essere vittoriosa sulla morte e sul peccato, perché fondata sulla fedeltà dell'amore di Dio.

Ecco perché, tornando al vangelo di Marco, le parole dell'angelo alle donne presso il sepolcro vuoto, non sono solo informazioni, ma un imperativo missionario preciso: «andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro» (Mc 16,7). Per andare è però prima necessario vincere la paura che paralizza: «Non abbiate paura!» (16,6). Alle donne è affidato un messaggio che non riguarda direttamente l'evento della risurrezione, ma la fedeltà di Gesù verso i discepoli: «Egli vi precede in Galilea, là lo vedrete, come vi ha detto» (16,7). Il riferimento è alla profezia fatta da Gesù nell'imminenza della sua passione (Mc 14,27-28), una profezia a due facce: l'abbandono dei discepoli («tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse»), e la fedeltà di Gesù («Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea»).
Gesù, infatti, appena risorto, pensa ai discepoli che lo hanno lasciato solo. Lo hanno abbandonato, ma per Lui sono sempre i suoi discepoli.

Per questo la risurrezione è il trionfo della fedeltà: del Padre che non abbandona il Figlio nella morte, e di Gesù che non abbandona i discepoli nella disperazione.

domenica 21 aprile 2019

L'Osservatore Romano: Un inizio impossibile da possedere

Racconti, storie, proposte e riflessioni in occasione della Pasqua

20 aprile 2019
di Sergio Massinori

Cristo è risorto! Ma che cosa significhi, del tutto non lo sappiamo ancora. Pur avendo celebrato molte volte la Pasqua, rimaniamo simili ai tre apostoli che, scendendo dal Tabor, per la prima volta sentirono Gesù parlare di risurrezione: «Essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti» (Marco 9, 10). I testi biblici che saranno proclamati nel tempo pasquale testimoniano tutta la fatica e la creatività della prima generazione cristiana nell’inventare un linguaggio capace dell’indicibile: in essi si avverte come il nuovo si sia offerto, superando con la sua densità ogni parola disponibile a persone oneste e sorprese. Da loro, dai testimoni oculari, riceviamo come insufficiente, eppure determinante a comprendere l’opera santa di Dio, l’espressione che ha interrotto il silenzio della morte: «Cristo Signore è risorto!».

Essa significa anzitutto che il crocifisso, morto e sepolto, si è alzato: il verbo con cui ora è descritta la fine della morte, nei vangeli molte volte aveva già narrato il levarsi in piedi di peccatori, di malati, di morti, di Gesù stesso. Alzarsi: assumere la posizione eretta, scoprire mani libere per creare, guadagnare un orizzonte più ampio di quello concesso a chi procede fissando la terra. L’uomo si riempie gli occhi di mondo, li eleva fino al cielo, guarda il fratello in volto.

«È risorto» significa poi questo: che quaggiù, nel mondo dove abitiamo, egli è uscito dalla morte. Come fisico e quotidiano è il gesto di chi si alza, così la vita eterna di Dio è riscontrata, a Pasqua, entro limiti a noi consueti. Non è accaduto altrove: ciò contrasta con ogni visione dell’aldilà che ambienti lontano dai luoghi di ogni giorno la nostra vittoria sulla morte. Cristo è uscito dalla terra in cui era sepolto, la stessa su cui noi camminiamo. Quello che calpestiamo è il mondo redento, è la terra di Dio. Perde di pertinenza qualsiasi idea di paradiso in cui non sia salva la scena umana. Egli è visto, toccato, ascoltato, nutrito, adorato dai suoi, negli ambienti e nei linguaggi della loro amicizia.

È risorto, infatti, con una storia. Dalla morte viene incontro a persone che hanno di lui ricordi da ritrovare; viene col suo nome: nulla è svanito. Qui si tocca così un aspetto delicato ed estremamente affascinante della scoperta pasquale. Dio rende eterna, sottrae alla corruzione e alla dimenticanza, quella vita irripetibile che la morte ha chiuso.

La salvezza è concreta, è di qualcuno. Proprio qui ha origine la devozione antichissima al nome di Gesù. Che significa, certo, «Dio salva», ma in una persona, nel nucleo denso e insormontabile della sua unicità.

Eppure Cristo ci mostra che risorgere è, altresì, venire modificati dalla morte, essere noi — sì — ma non più noi: non più gli stessi, non più pensabili senza una determinata morte, quasi sigillo della vita. Le piaghe del risorto e la fatica a riconoscerlo ci proiettano su un’esperienza ancora inaccessibile, ma il cui presentimento è ormai intenso: non si attraversa la notte oscura invano; non si supera una prova senza venirne per sempre modificati.

Risurrezione è, infatti, il nome di una salvezza “nella” morte. Capovolgendo la tradizionale antifona, Lutero poté affermare Media morte in vita sumus, sic dicit, sic credit christianus, “In piena morte ci è sopra la vita, non più il contrario”. All’incombere della fine si sostituisce la permanente offerta di un nuovo inizio, di un legame libero e vitale. Questo svela perché debba morire anch’io, pur essendo risorto il Cristo: la mia morte sarà vinta non senza di me, io solo ne determinerò la qualità e la singolarità, in rapporto al Bene che mi chiama. Unito a lui, attraversarla mi compirà, eternamente. Non c’è nulla di automatico. La sua risurrezione non esaurisce né risolve la mia: la dischiude.

Contro una lettura semplicemente lineare del tempo — che per molti sarebbe propria del cristianesimo: nel passato Gesù, nel presente la Chiesa, nel futuro l’apocalisse — appare a questo punto decisivo il continuo ritorno del Risorto. «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa» (Giovanni 20, 26): già si presenta quel ritmo settimanale che a noi è dato nel convenire domenicale e nel ciclo dell’anno liturgico. Ripetizione. Non l’eterno ritorno dell’uguale — quella ciclicità delle stagioni che fa concludere a Qohelet «Nulla di nuovo sotto il sole» (1, 4-10) — ma l’eterno ritorno del Nuovo, dell’inaudito, di ciò che rimane sconosciuto a ogni generazione, non fosse che risplende in Cristo.

La fede si forma in rapporto al venire del Risorto e al suo stare in mezzo (Giovanni 20, 19.26): come Tommaso è accompagnato oltre il suo dubbio, così avverrà per quelli che accolgono la testimonianza degli apostoli pur non avendo visto. Lo ha perfettamente mostrato Paul Beauchamp, quando descrive il nostro accesso al messaggio salvifico: «La parola biblica, guidata dal desiderio, esige dal suo destinatario un movimento. Più concretamente, essa è trasmessa da coloro che hanno già risposto a questo appello e imprimono innanzitutto nei loro stessi gesti (nel loro stesso corpo) l’interpretazione del testo». Si tratta quindi di un imprescindibile incontro, mai risolto da qualcuno per tutti, né, per il singolo, una volta per tutte. Sorprende, ma va riconosciuto e desiderato. E avviene in una compagnia, in uno scambio generazionale. «C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è una novità?”», si domandava il sapiente (Qoelet 1, 10): «Sì», è la risposta pasquale. Esiste un Nuovo cui perpetuamente esporci: ci precede, ci accompagna, ci segna. Quando crolla l’illusione di una storia lineare, perché giriamo a vuoto invece di avanzare, o attraversiamo una crisi e il domani si fa incerto, quando le forze diminuiscono, i difetti non scompaiono, i peccati si ripetono, Egli torna a noi. E comprendiamo che nel suo porsi al centro, misericordioso, noi troviamo pace. Non è una corsa verso il baratro quella in cui ci ha posti. Piuttosto, un’amicizia duratura, una compagnia creativa, dinamica. Alleanza provata, ma radicata in Dio, quindi stabile e fedele. Pasqua è dunque fin d’ora alzarsi, amare la terra, assumere fino in fondo la responsabilità della propria storia, rispondere di quell’unicità che la morte sigillerà, introducendoci — uno a uno — alla definitiva comprensione di cosa significhi, per tutti, «Cristo è risorto».

Da qui, osserva ancora Beauchamp «il carattere vivente della tradizione del messaggio. Polemicamente, si potrebbe osservare che la proliferazione dei traviamenti del messaggio è stata e sarà “mostruosa” ogni volta che invece di intendere il testo come apertura del desiderio si è cercato di fissarlo nel suo equivalente di rappresentazioni, che trasformano tale apertura in un sapere dell’inizio».

Certo, è naturale per l’essere umano cristallizzare la sua “traversata” in “formule vere”. Eppure la tradizione non è immobile, né immutabile, perché, come in principio la creazione, così anche l’innesco del cristianesimo, il cuore della dottrina — l’avvenimento della risurrezione — si è reso imprendibile: notturno, silenzioso, esterno a ogni sguardo, improvviso. A nessun apostolo e a nessuna Chiesa è dato di possedere il proprio inizio. Cristiana è dunque la comunità che orienta verso Colui che si dice in molti modi, perché si lascia incontrare da ciascuno solo nel suo proprio tempo.

sabato 20 aprile 2019

padre Raniero Cantalamessa:Predica del Venerdì Santo 2019

“Oggi vogliamo contemplare il Crocifisso proprio in questa veste: come il prototipo e il rappresentante di tutti i reietti, i diseredati e gli ‘scartati’ della terra, quelli davanti ai quali si volta la faccia da una altra parte per non vedere”. È l’inizio dell’omelia, riportata dall’agenzia Sir, tenuta da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, durante la celebrazione della Passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Gesù non ha cominciato ora, nella passione, ad esserlo. In tutta la sua vita egli ha fatto parte di loro”, ha fatto notare il religioso, fin dalla nascita in una stalla e nella presentazione al tempio, “un vero e proprio certificato di povertà nell’Israele di allora”.

“Durante la sua vita pubblica, non ha dove posare il capo: è un senzatetto”, il ritratto di Canatalamessa, che ha sottolineato come durante l’interrogatorio di Pilato Gesù “è il prototipo delle persone ammanettate, sole, in balia di soldati e sgherri che sfogano sui poveri malcapitati la rabbia e la crudeltà che hanno accumulato nella vita. Torturato! ‘Ecce homo!’, Ecco l’uomo!, esclama Pilato, nel presentarlo di lì a poco al popolo. Parola che, dopo Cristo, può essere detta della schiera senza fine di uomini e donne avviliti, ridotti a oggetti, privati di ogni dignità umana”.

“Se questo è un uomo”: lo scrittore Primo Levi ha intitolato così il racconto della sua vita nel campo di sterminio di Auschwitz, ha proseguito il domenicano, secondo il quale “sulla croce, Gesú di Nazareth diventa l’emblema di tutta questa umanità ‘umiliata e offesa’. Verrebbe da esclamare: ‘Reietti, rifiutati, paria di tutta la terra: l’uomo più grande di tutta la storia è stato uno di voi! A qualunque popolo, razza o religione apparteniate, voi avete il diritto di reclamarlo come vostro”.

“Nobody knows the trouble I have seen. Nobody knows, but Jesus”: Nessuno sa il dolore che ho provato; nessuno, tranne Gesù”. A citare lo spiritual cantato dagli schiavi afroamericani del Sud è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Uno scrittore e teologo afro-americano che Martin Luther King considerava suo maestro e ispiratore della lotta non violenta per i diritti civili, ha scritto un libro intitolato ‘Jesus and the Disinherited’, Gesú e i diseredati”, ha ricordato il religioso citando Howard Thurnman: “In esso, egli fa vedere che cosa la figura di Gesù aveva rappresentato per gli schiavi del Sud, di cui lui stesso era un diretto discendente. Nella privazione di ogni diritto e nella abiezione più totale, le parole del Vangelo che il ministro di culto negro ripeteva, nell’unica riunione ad essi consentita, ridavano agli schiavi il senso della loro dignità di figli di Dio”.

“In questo clima sono nati la maggioranza dei canti negro-spiritual che ancora oggi commuovono il mondo”, ha commentato Cantalamessa: “Al momento dell’asta pubblica essi avevano vissuto lo strazio di vedere le mogli separate spesso dai mariti e i genitori dai figli, venduti a padroni diversi. È facile intuire con che spirito essi cantavano sotto il sole o nel chiuso delle loro capanne”.

Il significato più profondo della passione e morte di Cristo “non è quello sociale, ma quello spirituale”. Ne è convinto padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, che nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore, presieduta dal Papa questo pomeriggio nella basilica di San Pietro, ha fatto notare che “quella morte ha redento il mondo dal peccato, ha portato l’amore di Dio nel punto più lontano e più buio in cui l’umanità si era cacciata nella sua fuga da lui, cioè nella morte. Non è il senso più importante della croce, ma è quello che tutti, credenti e non credenti, possono riconoscere ed accogliere”.

“Se per il fatto della sua incarnazione il Figlio di Dio si è fatto uomo e si è unito all’umanità intera, per il modo in cui è avvenuta la sua incarnazione egli si è fatto uno dei poveri e dei reietti, ha sposato la loro causa”, ha spiegato il religioso: “Si è incaricato di assicurarcelo lui stesso, quando ha solennemente affermato: ‘Quello che avete fatto all’ affamato, all’ignudo, al carcerato, all’esiliato, lo avete fatto a me; quello che non avete fatto ad essi non lo avete fatto a me’”.

“Ma non possiamo fermarci qui”, l’invito del domenicano: “Se Gesù non avesse che questo da dire ai diseredati del mondo, non sarebbe che uno in più tra di loro, un esempio di dignità nella sventura e nulla più. Anzi, sarebbe una prova ulteriore a carico di Dio che permette tutto questo”. Il Vangelo, infatti, “non si ferma qui; dice anche un’altra cosa, dice che il crocifisso è risorto! In lui è avvenuto un rovesciamento totale delle parti: il vinto è diventato il vincitore, il giudicato è diventato il giudice, ‘la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo’”.

“L’ultima parola non è stata, e non sarà mai, dell’ingiustizia e dell’oppressione”, ha detto Cantalamessa: “Gesú non ha ridato soltanto una dignità ai diseredati del mondo; ha dato loro una speranza!”. Nei primi tre secoli della Chiesa, ha fatto notare il predicatore della Casa Pontificia, la celebrazione della Pasqua non era distribuita come ora in diversi giorni: Venerdì Santo, Sabato Santo e Domenica di Pasqua: “Tutto era concentrato in un solo giorno. Nella veglia pasquale si commemorava sia la morte che la risurrezione. Più precisamente: non si commemorava né la morte né la risurrezione come fatti distinti e separati; si commemorava piuttosto il passaggio di Cristo dall’una all’altra, dalla morte alla vita”.

La parola “pasqua”, infatti, significa passaggio: “passaggio del popolo ebraico dalla schiavitù alla libertà, passaggio di Cristo da questo mondo al Padre e passaggio dei credenti in lui dal peccato alla grazia”. “È la festa del capovolgimento operato da Dio e realizzato in Cristo; è l’inizio e la promessa dell’unico rovesciamento totalmente giusto e irreversibile nelle sorti dell’umanità”, ha commentato Cantalamessa: “Poveri, esclusi, appartenenti alle diverse forme di schiavitù ancora in atto nella nostra società: Pasqua è la vostra festa!”.

“La croce contiene un messaggio anche per coloro che stanno sull’altra sponda: per i potenti, i forti, quelli che si sentono tranquilli nel loro ruolo di ‘vincenti’”. Lo ha spiegato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, nell’omelia della celebrazione della passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Ed è un messaggio, come sempre, d’amore e di salvezza, non di odio o di vendetta”, ha proseguito: “Ricorda loro che alla fine essi sono legati allo stesso destino di tutti; che deboli e potenti, inermi e tiranni, tutti sono sottoposti alla stessa legge e agli stessi limiti umani”.

“La morte, come la spada di Damocle, pende sul capo di ognuno, appesa a un crine di cavallo”, ha ricordato il religioso: “Mette in guardia dal male peggiore per l’uomo che è l’illusione dell’onnipotenza. Non occorre andare troppo indietro nel tempo, basta ripensare alla storia recente per renderci conto di quanto questo pericolo sia frequente e porti persone e popoli alla catastrofe”.

“La Chiesa ha ricevuto il mandato del suo fondatore di stare dalla parte dei poveri e dei deboli, di essere la voce di chi non ha voce e, grazie a Dio, è quello che fa, soprattutto nel suo pastore supremo”, ha affermato il religioso, secondo il quale “il secondo compito storico che le religioni devono, insieme, assumersi oggi, oltre quello di promuovere la pace, è di non rimanere in silenzio dinanzi allo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti. Pochi privilegiati posseggono beni che non potrebbero consumare, vivessero anche per secoli e secoli, e masse sterminate di poveri che non hanno un pezzo di pane e un sorso d’acqua da dare ai propri figli”. “Nessuna religione può rimanere indifferente, perché il Dio di tutte le religioni non è indifferente dinanzi a tutto ciò”, l’appello finale.

SettimanaNews: Sabato Santo: Il giorno del grande silenzio


Nel Messale il Sabato Santo è una pagina vuota: l’assenza di riti che implicano la sua presenza, indica almeno che per un giorno nella storia Gesù era davvero morto. Ma non è che la liturgia rimanga muta e priva di suggerimenti per la riflessione e la preghiera. C’è per questo tutto l’apparato di testi approntato per la Liturgia delle ore. Basterebbe, per esempio, per ciò che si usa chiamare “elaborazione del lutto”, il bellissimo Salmo 15 previsto per l’Ufficio delle Letture (e che torna ogni giorno nella Compieta del giovedì), citato peraltro in At 2,25 nel discorso che Pietro rivolge alla folla dopo la discesa dello Spirito Santo, un testo che costituisce un’ottima riflessione su quanto è accaduto. Anche perché credo che questo sia lo scopo di questo giorno sospeso tra la morte e la risurrezione di Gesù.

Peraltro, questo “grande silenzio” come lo chiama un’anonima antica omelia, è un silenzio pieno di interrogativi, di domande inquietanti, di quelle che si sono posti le folle e i discepoli, di quelle che probabilmente si è posto Gesù stesso, almeno dal momento in cui ha cominciato a prendere coscienza che la strada da lui scelta lo avrebbe condotto a un esito che non può essere descritto se non come un netto fallimento.

Questo è stato certo il primo scoglio sul quale hanno inciampato i pochi discepoli che gli erano rimasti fedeli, e che già prima della tragica conclusione si erano dileguati, senza però sparire, perché, superato lo choc, li troviamo ancora insieme, pur se riuniti a «porte chiuse per timore dei giudei» (Gv 20,19). È una paura più che legittima, perché potevano solo prevedere che sarebbe toccata anche a loro la sorte del loro Maestro, come peraltro accadde poi, accade ora e continuerà ad accadere.

Vivere il Sabato Santo credo dunque che significhi ripercorrere gli interrogativi che si sono posti i discepoli dopo una fine che li aveva sconvolti e messi in crisi. Peraltro i “dubbi” restano nei loro cuori anche dopo gli incontri con il Risorto (cf. Mt 28,17), così come restano nei nostri anche dopo la celebrazione della croce come di una vittoria. Del resto, il dubbio è connaturato alla fede, se no che fede sarebbe?

E dunque non è inutile riprendere anche emotivamente quegli interrogativi, perché, se non li attraversiamo, quella della Pasqua rischia di essere una gioia futile e passeggera, legata a quegli elementi che caratterizzano ogni “festa”, ma che non equivalgono automaticamente alla “gioia della fede”.

Prendiamo, come si dice, il toro per le corna, e chiediamoci se abbia senso, e quale, quello di un “Messia fallito”, un vero e proprio incredibile ossimoro, perché mette insieme due realtà che, di natura, si respingono. Non è necessario che ricordi le reazioni dei discepoli, di Pietro in primo luogo, ai ripetuti annunci con cui Gesù li preparava a una conclusione che probabilmente per primo aveva faticato a capire ed accettare lui stesso, e questo fino all’ultimo.

Rileggiamole quelle reazioni, condensate in quanto scrive Luca: «Ma quelli non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto» (Lc 18,31-34), tre frasi per descrivere l’incomprensione! Marco aggiunge che, oltre a non capire, «avevano paura a interrogarlo» (Mc 10,32).

Occorre indugiare su questa sistematica incomprensione, che è anche nostra: se non c’è, significa che abbiamo già mentalmente anestetizzato e di fatto neutralizzato la croce, diventata da patibolo un ciondolino innocuo da mettere al collo.

Dai vangeli risulta che Gesù, a un certo punto, ha capito e accettato quello che, alla fine, gli è parsa la volontà di Dio, un’accettazione certamente angosciosa. Una paura che Giovanni anticipa a poco prima della Pasqua, a commento della parabola del chicco di grano che deve cadere e morire per portare frutto (cf. Gv 12,27-28), paura che appare in tutto il suo dramma nella notte dell’agonia, quando Gesù provò angoscia, spavento e tristezza mortale, dove pregò perché gli fosse risparmiato quel destino, concludendo però con un faticoso ma fiducioso abbandono: «non come voglio io, Padre, ma come vuoi tu» (Mt 26,39).

Pare che Gesù non abbia all’inizio né previsto, né tanto meno progettato la sua morte con quegli effetti di “salvezza” che poi le vennero attributi. È vero che poi fu lui a “volere”, cioè ad accettare tale morte («Si è immolato perché lo ha voluto lui», scrive Is 53,7), ma non per un desiderio di morte, ma perché era giunto a capire che questa era la volontà del Padre, il “piano di Dio” (cf. At 2,23), come si usa dire.

Tale piano non va però inteso ingenuamente come se si trattasse di un programma ben dettagliato consegnato alla partenza, ma come una convinzione che è andata formandosi gradualmente, e che è espressa nella Scrittura con il verbo “deve, è necessario” applicato ai fatti che sono accaduti, da leggere perciò non come incidenti casuali, anche se possono apparire così, ma pezzi di un cammino governato dal volere di Dio. Questo è quanto emerge in modo chiaro dal modo con cui soprattutto Giovanni, ma non solo, li racconta.

Possiamo chiederci per quali strade Gesù, e dietro a lui la sua comunità, sono arrivati a concepire tale piano. La via era segnata dalle profezie, e l’esito di una ricerca per cogliere il senso di quel fragoroso fallimento è ben riassunta da Luca nel rimprovero che Gesù rivolge ai due di Emmaus, che in quella sera del primo giorno stavano cercando di capire cosa era successo, come i loro compagni a Gerusalemme: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,26-27). Ma si veda anche Mc 8,31; Mt 16,21; Lc 9,22; At 17,3.

Una volta che si capì che Gesù andava letto come Messia secondo la figura del profeta, la sua vita non poteva che finire come è finita, sia per il prezzo da pagare, sia per il frutto che sarebbe derivato dalla sua morte. Sicuramente, da questo punto di vista hanno avuto un’importanza enorme i passi di Isaia riferiti al «servo sofferente di Dio», l’ultimo dei quali è stato letto ieri, e che già si trova citato in Mt 8,17, dove si applica al ministero delle guarigioni di Gesù il passo che dice: «Egli ha preso su di sé le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Is 53,4).

Poi si arriverà a comprendere che in lui c’era anche la figura del Messia re, con la precisazione che il suo trono era la croce e, infine, avrebbe anche assunto la figura del Messia sacerdote, specificando che, nell’offrire il sacrificio, lui era nel contempo il sacerdote e la vittima.

Si trattava nientemeno che di un ribaltamento delle ingenue attese riferite a queste tre figure diffuse nel popolo, e che, rispetto a quelle attese, Gesù era decisamente un Messia fallito.

Nessuno sa quanto tempo sia stato richiesto per operare tale cambiamento di prospettiva, e se la risurrezione ha dato un avvio decisivo a tale rivisitazione delle attese, non ha certo chiuso tutti i problemi, né per loro né per noi.

E questo perché il paradosso per cui nei piani di Dio dal fallimento nasce il successo, che è poi un altro modo di dire che dalla morte nasce la vita, dobbiamo imparare a digerirlo anche noi. Ne va della figura di Dio, che da questa storia esce non come un Essere crudele e assetato di sangue, come qualcuno ha detto e dice. Al contrario, nella vicenda di Gesù di Nazareth appare l’immagine di un Dio che nel suo Figlio subisce il peso del male che ferisce il mondo, e lo guarisce sopportandolo nella mitezza.

La lezione per noi è chiara, e nasce dall’intreccio indissolubile tra mistero (cf. Fil 2,6-11) ed esempio (cf. 1Pt 2,21-25): il mistero che suscita il nostro grazie a un Dio che ci ha amato sino a morire per noi, l’esempio per seguire la sua logica che fa dell’abbassamento la strada per riuscire davvero nella vita, da spendere nel servizio e nell’attenzione ai più deboli, e nel rifiuto di ogni violenza per «vincere il male con il bene» (Rm 12,21).

30 marzo 2018
Nico Guerini